L’albero del brigante e “Le ultime ore di Civitella”

Pietroneno Capitani con Sergio Zavoli

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Ho un ricordo indelebile, seppur lontano. Sarà stato il 1960 o poco più. Sono in auto con mio padre, sul sedile posteriore. Ho circa cinque anni. Siamo sulla vecchia Salaria per Roma, pochi chilometri dopo Ascoli Piceno. Sulla destra, un grande albero, massiccio e imponente con un tronco cavo. Mio padre, con tono serio afferma: «Quello è l’albero del brigante». Quella frase non l’ho più dimenticata, con tutte le fantasie fanciullesche evocate. Il termine “brigante”, che allora mi incuteva timore, ha stimolato curiosità storiche successive. L’albero è un platano enorme, forse risalente all’anno 1000, con la circonferenza più ampia di tutta la regione Marche (poco meno di nove metri). Un’altezza di almeno 24 metri, praticamente come un palazzo di otto piani. Lo si vede, anche se distratti, ogni volta che si transita sulla Salaria. Il platano ha un nome. In alcune carte si parla dell’albero di Picciò che sta per Piccione o Piccioni. Probabilmente, qualche “brigante” ci si è nascosto per davvero nella sua cavità, forse per degli agguati.

Quello che ci interessa ricordare, storicamente, è il periodo del cosiddetto brigantaggio, durante l’annessione all’Unità d’Italia, nei dintorni del 1860. In quegli anni, il priore di Rocca di Montecalvo, Giovanni Piccioni, si impegnò non poco come comandante delle forze anti-unità (briganti per i Piemontesi) e la leggenda popolare vuole che egli si nascondesse nella cavità di quel maestoso platano. La frase di mio padre si riferiva a lui. La vita riserva sorprese piacevoli. Va colto l’attimo. In questo caso, l’attimo, inatteso e pertanto efficace, è stato imbattersi in un libro dal titolo che non passa inosservato: “Le ultime ore di Civitella”, Primiceri Editore. Si parla di Civitella del Tronto, l’ultimo baluardo di resistenza ai Piemontesi, nel 1861, in difesa dello Stato Pontificio e del Regno dei Borboni. E tra quella roccaforte e le colline e i monti del Piceno gioca la sua scommessa di liberatore Giovanni Piccioni. Quel “Giovanni Piccioni”, il brigante. L’autore è Pietroneno Capitani, scrittore, pubblicista e giornalista di lungo corso e grande amico del compianto Sergio Zavoli. Pietroneno conosce bene i luoghi, pur essendo riminese. É nato tra le colline del Piceno e vi torna spesso.

Il libro, giocando sui piani temporali, avvince con una scrittura scorrevole, piacevole, rigorosa e leggera. E con una trama che, sullo sfondo contestuale dei fatti storici, ben illustrati, sull’onda di un necessario revisionismo, romanza il personaggio sulla sua natura umana di un antieroe tenace e testardo, convinto all’estremo delle sue idee, onesto a suo modo, mentre aiuta, nella sua disperata speranza di una storia d’amore, un ricco possidente terriero in terra ascolana che ha, sostanzialmente, idee opposte alle sue. Molto bello l’uso del linguaggio gergale contadino che affiora e dà musicalità al testo, intercalando il perfetto italiano della scrittura. Ed è bello riscoprire soprannomi che sanno di storia, l’uso di termini che sentivamo ancora nell’infanzia. Il lettore s’accorge che in qualche modo appartiene ai personaggi, ci si rende conto che fanno parte delle proprie radici. Erano donne e uomini che hanno pagato con enormi sacrifici personali un cambiamento epocale, probabilmente necessario ma non certo privo di gravi ingiustizie.

Pietroneno sa accompagnare il lettore nelle sue pagine, come in una macchina del tempo. Si vive in diretta il susseguirsi dei giorni, degli avvenimenti. Si colgono le sfumature dei pensieri, dei sentimenti. Si spera e si sussulta con i protagonisti. Si affonda con loro i piedi nella neve d’altura, si cavalca insieme a loro. Si cammina, incontro alla trepidazione e al rischio, sfidando l’imponderabile, andando nel profondo di se stessi. In nome di lealtà e futuro. In nome anche di un ideale d’amore che si chiama Evelina e che nel racconto è il “trait d’union”. La figura di Giovanni Piccioni, chiamato il “maggiore” dagli uomini del suo gruppo paramilitare fatta di volontari, perlopiù gente di montagna, ci appare nitida, quasi epica. Uomo istruito, ponderato, consapevole e fedele al suo Stato di originaria appartenenza, quello Pontificio, si mostra anche nei suoi aspetti umani, talvolta intimi.

Così facendo, dipingendo la storia con le sue necessità ma raccontando anche il sentimento, Pietroneno Capitani ci fa entrare in un mondo che a tratti ci appare arcaico, lontano, eppure vicinissimo, interiore. Mostrandoci spaccati di vita di montagna, le usanze e le condizioni contadine del tempo, ci ricorda le nostre radici, ci offre una magistrale visione antropologica anche quando, in su e in giù per scalinate di Civitella, tra le strette rue, alla ricerca di Lina (Evelina), a pochi passi, nella Fortezza, altri decidono l’epilogo della resistenza e le sorti di un popolo.

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