Tempietto di Sant’Emidio alle Grotte, un vero splendore dell’arte religiosa barocca

Tempietto di Sant’Emidio alle Grotte (foto di Giampietro De Angelis)

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Il monumento che non t’aspetti, che ti sorprende da fuori e ti sbalordisce quando lo visiti all’interno. Stiamo parlando del Tempietto di Sant’Emidio alle Grotte, edificato in luogo appartato, leggermente collinare, ma comunque molto vicino all’area urbana di Ascoli Piceno. Fu su desiderio popolare che si decise di affidare il progetto allo scultore earchitetto Giuseppe Giosafatti che convinse tutti con un disegno molto originale, definibile in stile barocco, ma che va oltre le descrizioni canoniche. Qualcuno definisce l’opera, realizzata e consacrata nel 1720, “la piccola Petra”, per la bella forma della facciata, ma anche e soprattutto per quel suo integrarsi alla parete in tufo, così come lo sono le facciate intagliate nella roccia costituenti il sito archeologico di Petra in Giordania. L’interno, sostanzialmente invariato nei secoli, è costituito da antiche grotte scavate nella roccia tufacea. Ecco, tutto parte dalle grotte. Quello che si sa è che, già nell’anno 250, esistevano degli antri comunicanti tra loro.

La storia, in parte con risvolti leggendari, vuole che in quelle grotte vennero conservate le spoglie dell’attuale Patrono di Ascoli Piceno, Sant’Emidio, per ben sette secoli (attualmente i resti del santo sono nella cripta del duomo cittadino). Va da sé che il luogo, così com’era nella sua semplicità, con la sola aggiunta di un piccolo altare nella grotta principale, divenne meta di pellegrinaggio ed oratorio di culto e preghiera. Poi ci fu il grande terremoto dell’Aquila nel 1703 che produsse sciami sismici per interi mesi che misero in difficoltà anche la cittadinanza ascolana, pur senza vittime. Per questo, per la convinzione che il santo aveva protetto la città, si sviluppò l’idea di creare un ex-voto nel luogo della sepoltura, in quell’oratorio di tufo. Il resto è storia.

Nel 1717 fu posta la prima pietra di travertino e in tre anni venne completata la costruzione che consisteva, oltre che nella stupefacente facciata, di ispirazione berniniana (Giuseppe Giosafatti si considerava allievo di Gian Lorenzo Bernini), anche nella messa in sicurezza delle grotte, arricchendo con pilastri che di fatto suddividevano la grotta centrale in tre piccole navate con volte a crociera: un vista straordinaria, intimistica, spirituale, di rara forza suggestiva. In questi ultimi secoli, dopo la costruzione, si sono resi necessari più interventi conservativi, data la delicata fragilità degli spazi interni. Nell’anno 2000 la piccola chiesa è stata annoverata nell’elenco dei “Luoghi dello Spirito” per “Le vie del giubileo nella Regione Marche”.

Chi va per la prima volta, magari dopo una piccola ricerca su internet, non sa esattamente cosa aspettarsi e molti, trovando chiuso, sono già soddisfatti di godere la bellezza della facciata che, va ribadito, vista da vicino sortisce emozione e stupore. Ma è all’interno che c’è l’incanto spirituale perché si è a tu per tu con “la polvere” solcata dai nostri progenitori. Si cammina sulla terra delle grotte, si attraversa cunicoli, si scoprono dettagli che non vanno raccontati: l’emozione va esplorata di persona. Non si vorrebbe uscire, non ha neanche senso scattare foto.

Il senso sta nel raccogliersi, e non è questione di fede, ma di “sentore”. È quella sensazione particolare e unica di percepire qualcosa che ci attraversa, una espansione emotiva che unisce e ci dà la misura delle cose e diventa sostanza. Eppure occorre uscire, con un ultimo sguardo ai colonnati, all’altare, al tufo ostinato che regge il passare del tempo. Un ultimo sguardo alla facciata con un pensiero di gratitudine al suo ideatore, Giuseppe Giosafatti. Si torna nel flusso cittadino, alle proprie occupazioni, ma con una quiete rafforzata. La bellezza salverà il mondo, diceva Dostoevskij. Forse no, è solo utopia, ma è sano crederci. È giusto crederci, così come è giusto tornare a visitare il piccolo tempio.

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