di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Se un gruppo di scienziati ci chiedesse se fossimo disposti a partecipare ad un esperimento di vita sociale, una qualche curiosità forse l’avremmo e ne vorremmo sapere qualcosa di più. Consisterebbe nel vivere in una sorta di villaggio blindato, protetto dal mondo esterno, dove non ci sarebbero mai minacce e pericoli e dove non mancherebbero cibo e comfort. E che vincolerebbe le generazioni future a vivere in quel villaggio, bello e sicuro. Non stiamo parlando di format televisivi, per intenderci, ma di qualcosa di molto serio, un esperimento scientifico che durerebbe intere generazioni. Probabilmente faremmo un passo indietro, preoccupati di una riduzione di autonomia, non pensando al vero scopo e ai problemi più sostanziali. Cosa potrebbe accadere nel tempo quando il numero dei residenti aumenterebbe? Gli spazi, che inizialmente risulterebbero molto ampi, con il crescere della popolazione risulterebbero sempre più stretti e non proprio a misura di privacy. Il villaggio è un sistema chiuso. A cosa andrebbero incontro le persone? Non potendo aspettare centinaia di anni per vedere come va a finire, un’idea realistica ce la possiamo fare leggendo “Densità di popolazione e patologia sociale” di John Calhoun, professione etnologo. Il professionista realizzò diversi esperimenti negli anni ’60 e nei primi ’70. Quello più famoso, noto con il nome “Universo 25”, è illuminante a mio avviso. E sorprendente.
L’habitat era costituito da una stanza, larga circa tre metri e alta oltre un metro, dove vennero messi 8 topi. Gli animali non erano vincolati a stare fermi. Anzi, avevano la possibilità di muoversi in piano ma anche in verticale, dove trovavano molte postazioni facilmente raggiungibili, veri e propri nidi che venivano puliti regolarmente. Non c’erano minacce esterne, nessun pericolo di predatori. Un ambiente ideale, per vivere e riprodursi, dove non poteva accadere nulla di minaccioso se non derivante dai propri comportamenti. Tutto filò liscio per alcuni mesi e la colonia cresceva. Si sa che i topi sono molto prolifici. Nel giro di un anno e poco più, il numero passò da 8 a 620 unità. E qualcosa iniziò a cambiare nei comportamenti per via dell’effetto del sovrappopolamento. I comportamenti divennero autodistruttivi quando la colonia raggiunse le 2.200 unità. I topi maschi divennero molto aggressivi tra loro, attaccandosi e ferendosi. Le femmine iniziarono a trascurare i piccoli nati, abbandonandoli e lasciandoli morire.
Calhoun notò che sostanzialmente si erano formati tre tipologie comportamentali: un gruppo viveva al centro della gabbia, ammucchiandosi, ed era quello più frustrato e disorientato, altre colonie vivevano rifugiate nei nidi che potevano ospitare 15 topi ognuno e un ultimo gruppo, definito “i belli”, se ne stava appartato dedito al cibo, sempre abbondante, e a lisciarsi il pelo. Considerando un’equa distribuzione nei nidi, l’habitat avrebbe potuto accogliere fino a 3.800 topi, cosa che non avvenne. Arrivati a 600 giorni, non ci fu più crescita, il massimo degli ospiti si era assestato a 2.200 e, non essendoci più nuovi nati, la “società” si avviò all’estinzione, cosa che avvenne nell’arco di mesi. L’esperimento, nella sua totalità, durò 5 anni. Cosa era successo? Perché, nonostante il benessere, la mancanza di pericoli, c’erano stati stravolgimenti comportamenti tali da portare all’estinzione? Come mai il sovraffollamento era così stressante e alienante, pur standoci ancora spazio?
I topi hanno ruoli sociali ben delineati. In mancanza di predatori, aumentando di numero facilmente, ogni maschio vedeva minacciata la propria posizione sociale e il “proprio” territorio, raggiungendo un livello di stress psicologico tale da destabilizzarsi. In un certo senso, c’era una perdita di identità. Le femmine si ritrovavano con troppi pretendenti e iniziarono a vivere tra di loro, trascurando i piccoli. Esasperando questi atteggiamenti, la società collassò. E anche quando il numero tornò ad essere basso, man mano che i topi morivano, non si notarono miglioramenti: ormai era troppo tardi. Tutte le relazioni sociali erano irrimediabilmente danneggiate, senza possibilità di normalizzazione.
L’esperimento doveva servire a dare delle indicazioni di massima su cosa potrebbe accadere negli insediamenti umani, quando questi diventassero troppo densi. Negli anni ’60, a seguito dei boom economici, c’era un incremento delle urbanizzazioni con i famosi quartieri dormitorio, a danno delle campagne che venivano abbandonate. Si potrebbe obiettare che il risultato dell’esperimento non può essere trasferito tout court all’uomo che, dotato di schemi mentali più evoluti, è in grado di trovare soluzioni. Tuttavia, lo scienziato era piuttosto pessimista al proposito. In una relazione scrisse: «Non importa quanto sofisticato l’uomo creda di essere, una volta che il numero di individui in grado di ricoprire un ruolo sociale supera largamente il numero di ruoli disponibili, la conseguenza è la distruzione dell’organizzazione sociale».
Forse è una deduzione troppo allarmistica e non facilmente verificabile. Certamente, però, possiamo vedere alcuni effetti delle metropoli. Nei grandi centri urbani, il tasso di frustrazione, di alienazione e spersonalizzazione sono generalmente più frequenti che nei borghi piccoli dove permane una più fluida rete di relazione. La città porta più facilmente all’anonimato e al bisogno competitivo di affermazione. Ciò non toglie che, individualmente, tutto può essere diverso. La città, d’altro canto, offre un ventaglio di più ampie opportunità. E l’oggi non coincide con quella corsa all’urbanizzazione massiccia e frettolosa, con scarse infrastrutture, degli anni ’60 e ’70.
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