“La ronda dei carcerati” di Vincent van Gogh e le assonanze con il mito di Sisifo

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Nell’ultimo periodo della sua vita, Vincent van Gogh è stato in isolamento nel manicomio di Saint-Rémy-de-Provence a causa delle sue depressioni e manie autolesioniste. È facile dedurre che questa fase, più che aiutarlo a guarire, lo abbia incupito ulteriormente tant’è che, una volta dimesso, pochi mesi dopo muore suicida, il 29 luglio 1890. In quello stesso anno, tra le mura del manicomio realizza La ronda dei carcerati. La storia del dipinto è particolare. Lui amava dipingere all’aria aperta, ma non potendo uscire all’esterno si esercita a fare copie di stampe di altri artisti, in particolare elabora quella di Gustave Doré, Newgate: The Exercise Yard. La scena è terribile, descrive pittoricamente quella che veniva chiamata “la fossa dei serpenti”, dove i prigionieri erano costretti, in quella che doveva essere l’ora d’aria, a camminare in circolo, uno dietro l’altro, a testa china, chiusi nei loro giacconi. È un incedere stanco, ipnotico, spersonalizzante e annichilente. Più che un’ora d’aria doveva apparire un supplemento di punizione, una perversione ossessionante.

La fossa dei serpenti aveva una forma claustrofobica, con il suo perimetro poligonale e con delle pareti talmente alte da ridurre la vista del cielo, come a suggerire che la libertà era preclusa definitivamente e che non si poteva far altro che ruotare senza uno scambio umano. Già questo ricorda, in un certo senso, il mito di Sisifo: la condanna eterna a dover ripetere la stessa assurda scena. Tuttavia, l’estro, la follia e la voglia di evasione a tutto campo di van Gogh suggeriscono vie di fughe, così come, nel mito di Sisifo, ce le ipotizza Albert Camus. Vincent tratteggia in primo piano un personaggio che si distingue, l’unico che cammina senza berretto e con la testa sollevata, non china come i più, con lo sguardo che sembra orientato verso l’osservatore del dipinto, come a volerne incrociare gli occhi, in segno di intesa e forse di complicità. Molti sostengono questo, che l’uomo (van Gogh in autoritratto simbolico) si ribella alzando lo sguardo.

Tuttavia, io ritengo sia qualcosa di diverso. Non c’è dubbio che la prima sensazione sia quella, ma se si guarda bene il dipinto (su schermo digitale, per comprendere meglio si può ingrandire l’immagine del quadro) si vede che l’uomo ha gli occhi chiusi ed è assorto: è nel suo mondo. È questa la sua via d’evasione. Ed è qui che vedo il parallelo con l’interpretazione che Camus fa di Sisifo nel suo magistrale saggio. Camus immagina Sisifo che, non potendosi sottrarre, reinventa la condizione, diventa padrone del proprio destino decidendo di mettere il proprio mondo interiore – che nessuno può sottrargli – in quello esteriore che gli viene imposto. Nel primo c’è quella libertà che non ha più nel secondo. L’uomo di Vincent (Vincent stesso) è assorto, dicevo, gira in tondo come gli altri ma è diverso da loro: è consapevole, non è allucinato e apatico. Non potendosi sottrarre, chiude gli occhi, annulla momentaneamente la realtà esterna e torna a vivere nelle proprie fantasie.

In Camus, Sisifo ritrova una sua felicità, pur in una accezione più simbolica che reale, mentre nel dipinto l’uomo senza berretto dai capelli fulvi mantiene un’espressione triste. Il parallelo riguarda però il senso della libertà nella condizione di privazione della stessa e, soffermandoci su questo concetto e osservando ancora il dipinto, guardando in alto, nellato sinistro della parete centrale,possiamo notare due delicate farfalle bianche che tendono a salire. Le farfalle da sempre sono un simbolo di purezza, oltre che libertà, ma anche trasformazione e rinascita. È su questo ultimo aspetto che vedo realizzarsi il parallelo: la libertà interiore, ancora vitale e con una sua peculiarità, cerca un qualche spazio figurato, intimo e incomunicabile, laddove non è più possibile farla coincidere con quella esteriore, ormai mutilatae frustrata.

Tornando alla realtà dei fatti, e quindi alla cronaca più che alle disquisizioni filosofali, quello che è davvero triste è che il povero Vincent van Gogh, una volta recuperato lo spazio dei giorni e dei campi di grano, dopo essere stato dimesso dal manicomio, non abbia più avuto la forza di credere alla possibilità del volo di sé. Come a dire, ed è quello che si indicava nella parte iniziale dell’articolo, che la “cura” non sia stata adeguata e che il cupismo dell’artista sia peggiorato durante il ricovero, forse assai simile alla detenzione. A maggior ragione la forza del dipinto è travolgente e il simbolismo delle farfalle bianche più forte che mai.

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