Quando non sai cos’è, allora è jazz

di TONINO ARMATA –

Quando non sai cos’è, allora è jazz! Il jazz è uno di quei generi di cui ti innamori subito, a prescindere. Cominci ad amare quella canzone perché c’è qualcosa nel ritmo che parla di te, che racconta di te, che muove e smuove delle tue sensazioni, i tuoi ricordi, una manciata di pensieri, e nella gran parte dei casi non ha nemmeno bisogno di un accompagnamento vocale. È l’esempio di come la musica vada oltre, oltre ogni cosa. Di come la musica si faccia capire benissimo pur essendo solo aria e nell’aria. S’innalza con grinta ed arriva dritto verso la parte più intima di noi stessi, più propensa e vicina all’emozione riprodotta da quel ritmo. Il jazz è amore, tecnica, passione, sperimentazione ed improvvisazione. È tra i generi musicali più belli al mondo. È un’arte a sé all’interno del mondo stesso – immenso – delle note. Ha un ritmo incredibile, si è sempre mescolato bene ad ogni tipo di genere musicale già esistente e, soprattutto, moderno.  Credo sia giusto che venga promosso e divulgato.

Negli anni ’70, la Milano non da bere che guardava verso l’Europa, era una fabbrica di alta cultura e si poteva suonare musica di alta qualità. Soprattutto Il jazz perché il jazz aveva bisogno di poco. Il jazz è una musica acustica perciò: sassofono, tromba, piano, qualche volta il vibrafono, una batteria, un amplificatore per il basso e già ci siamo! Quindi era molto più semplice organizzare dei concerti Jazz di alto livello nell’ambito dei locali.  In quell’epoca i giovani non si dedicavano ad incontrarsi per un “Happy Hour”, ma lo facevano andando ad ascoltare la musica dal vivo! I locali erano pieni di ragazzi che andavano a sentire era il Jazz. I concerti rock, non erano programmati nei locali perché serviva un’attrezzatura tecnica impegnativa. A quell’epoca non c’erano i piccoli amplificatori portatili che ci sono adesso, quindi il rock che ha bisogno di molto volume sonoro rimaneva nell’ambito concertistico.

Uno dei locali più importanti degli anni ’70 era il “Capolinea”, un capannone in via Ludovico il Moro, piazza Negrelli, in mezzo alla nebbia – perché allora c’era la nebbia. Lo frequentavano musicisti che bazzicavano nell’area milanese. Al “Capolinea” i musicisti avevano il palco a disposizione per poter provare nel pomeriggio il repertorio che avrebbero suonato alla sera. Ci si incontrava verso le 16 e si continuava fino all’ora in cui era offerta una piccola cena e si poteva beneficiare delle straordinarie bruschette che nella mia memoria equivalgono ad una sorta di madelaine proustiana. Pane toscano, olio toscano, aglio, aglio, aglio, non so se toscano anch’esso ma sicuramente responsabile di qualche imbarazzo nell’avvicinarsi a persone che non ne avevano fatto uso…e poi una quantità di fumo inimmaginabile oggi, allora si potevano fumare le sigarette nei locali: si tornava a casa con gli abiti così intrisi di fumo che andavano lasciati sul balcone.

Dopo quella stagione preliminare il “Capolinea” si è allargato, hanno creato una sala grande, un po’ fatiscente e creata intorno ad un albero il cui tronco delimitava il palcoscenico che era adeguatamente attrezzato ed è diventato il luogo dove venivano ospitati concerti importanti di jazzisti americani. Una lista lunghissima da Gerry Mulligan ad Art Blakey, da Paul Bley a Jim Hall, da Chet Baker a Charlie Haden, da Elvin Jones a Betty Carter, da Archie Sheep a Tony Scott, da un giovanissimo Wynton Marsalis a Dino Saluzzi e noi del quintetto free jazz.  Ma soprattutto il “Capolinea” organizzava il festival Jazz in Italy con i migliori jazzisti nazionali e con la partecipazione di una nuova generazione di musicisti che sarebbero divenuti illustri protagonisti della scena italiana e che erano già habituè della programmazione corrente del locale: Paolo PellegattiLuigi BonafedeLarry NocellaMassimo UrbaniGigi CifarelliMichele Bozza, Marco VaggiAttilio Zanchi e Lucio Terzano.

Poi c’era il grande Jazz organizzato da Polillo e Maffei nei teatri milanesi, i quali, in quegli anni i grandi del jazz americano, da Duke Ellington a Ella Fitzgerald, da Ray Charles a Dizzy Gillespie, da Charles Mingus a Thelonious Monk, da Miles Davis a John Coltrane, da Ornette Coleman a Albert Ayler e altri ancora, in tournée in Europa facevano tappa a Milano. E ancora l’antologia del jazz dal canto gospel al Dixieland, dal blues al Ragtime, dal bop – bebop, fino al free jazz rappresentato da noi del quintetto free jazz svoltosi in tre giorni all’Università Statale di Milano. L’idea di fondo è stata quella di fornire agli studenti gli strumenti per capire come si è costruita la musica jazz. Quindi non fare della propria musica un non luogo ma il riflesso della propria identità espressiva.

Paul Valery diceva che non c’è nulla che non assomiglia a qualcosa e io sono molto d’accordo; una specie di elogio dello spazio, vale a dire: ascolto cento cose diverse e quando produco la mia cosa, utilizzo quegli elementi che ho selezionato nelle cose che ho ascoltato. Credo che per la comunità queste riflessioni siano un’esperienza molto importante per aprire ancor di più la mente e capire la musica jazz.

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