Giuseppe Moscati, un santo diverso dagli altri

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Il periodo natalizio sta passando e, con esso, tutto quell’insieme che ne costituisce il paradigma di facciata: la scenografia stereotipata dalle mille apparenze colorate e ammiccanti, un certo buonismo esteriore, le buone intenzioni che, statisticamente parlando, non si concretizzeranno. Per bilanciare, vorremmo parlare di una figura che è stata un esempio concreto di bontà e santità: il medico Giuseppe Moscati. Medico a tutto campo ma anche Santo diverso, perché la sua storia non è affatto prevedibile. Nel parlare di un santo, delle sue origini, ci aspetteremmo, convenzionalmente, un’infanzia difficile, una vita faticosa, il riscatto della fede sulle privazioni. Insomma, il condimento della povertà a benedire una devozione lontana dal benessere, dal potere, dai privilegi, dall’agiatezza e dal prestigio. Ecco, niente di tutto questo, nella vita del giovane Giuseppe. Anzi! Nasce a Benevento nel 1880, settimo di nove figli, da Francesco e Rosa De Luca. Il padre è avvocato ed ha una carriera brillante e importante, con un paio di passaggi anche nelle Marche. È stato giudice presso il tribunale di Cassino, presidente in quello di Benevento, consigliere di Corte d’appello ad Ancona (con tutta la famiglia, con Giuseppe piccolino) e in seguito a Napoli.

Giuseppe riceve un’educazione di alto livello, sia scolastica che religiosa. Ma non ci soffermiamo sugli aneddoti del bravo ragazzo studioso ed obbediente. Non è questo che ci interessa. Osserviamo, invece, un’esperienza dolorosa che riguardò suo fratello Alberto che, da militare, cadde da cavallo infortunandosi. Si suppone che la vicinanza al fratello, l’assisterlo, l’occuparsi di lui, gli abbia insegnato molto sull’importanza delle scelte, sull’amore fraterno in senso ampio, sul non lasciare solo chi è nella necessità di cure, non solo mediche ma anche affettive. Giuseppe comprende il senso olistico dell’occuparsi di qualcuno, ovvero considerando l’unità-totalità dell’essere umano. Cinque anni più tardi, si immatricola alla Facoltà di Medicina, con lo spirito del prete, del sacerdote che si dà interamente alla sua missione.

La laurea arriverà puntuale, nel nuovo secolo, quello della rivoluzione industriale. È il 4 agosto 1903. E solo pochi mesi dopo è già al lavoro presso gli Ospedali Riuniti degli Incurabili, a Napoli. È una struttura ospedaliera che ha origini lontane, costruita nel ‘500 ed ha una vocazione ben precisa: prendersi cura di chi ha poche o nessuna speranza di guarigione. È una scelta senza incertezze quella del dott. Moscati, in linea con la sua fede, con la “missione” che si è dato. Ma questo non significa che farà solo il missionario di corsia. È pur sempre un uomo di scienza, appassionato medico e delle potenzialità di questa nobile disciplina. Si dedica anche alle attività di ricerca nei laboratori dell’Istituto di Fisiologia, viene richiesto come consulente dall’Ispettorato della Sanità Pubblica, ottiene la docenza in Chimica Fisiologica, diventa direttore dell’Istituto di Anatomia Patologica.

Poi arriva la guerra, quel terribile e incredibile primo conflitto mondiale. Viene nominato direttore del reparto militare, nell’ambito degli Ospedali Riuniti degli Incurabili. Esperienza intensa. Sembra abbia personalmente visitato oltre 2500 soldati feriti più o meno gravemente. E qui torna il senso della missione, come prima scelta. Giuseppe rinuncerà, per restare in ospedale, sul suo personale “fronte”, ad alcune ottime opportunità di carriera universitaria. Ma a guerra finita, il richiamo della scienza, dello studio, della didattica, si rifanno vivi e forti. Ottiene la docenza in Clinica Medica Generale, nel 1922, senza staccarsi dalle esigenze dell’attività ospedaliera. Tra i primi, sperimenterà l’insulina nella cura diabetologica. Pochi anni dopo, a soli 46 anni morirà per infarto, nel suo studio medico. È il 1927.

Paolo VI esaminerà la causa di beatificazione, dichiarandolo Beato nel 1977. Giovanni Paolo II farà il passaggio successivo, nominandolo Santo nel 1987. Non c’è dubbio che Moscati abbia molti meriti, umani, oltre che medici. Sembra che curasse gratuitamente chi non poteva permetterselo e che, addirittura, fosse lui ad elargire denaro ai malati più poveri. Non s’è risparmiato, non s’è tirato indietro al bisogno d’assistenza e cura. Ma tutto questo, come ben sappiamo, non dà titolo per il riconoscimento della santità. Occorrono miracoli, degni di questa definizione, attestati ufficialmente.

Introduciamo la figura e la storia di Giuseppe Montefusco, un giovane operaio malato di leucemia. A soli vent’anni, viene ricoverato nel 1978 al Cardarelli di Napoli. La sua malattia ha una forma molto aggressiva e le cure non risultano efficaci. I medici sono sinceri con la famiglia: non c’è nessuna speranza di guarigione. La mamma del ragazzo, una notte, sogna un medico con il suo camice bianco. L’indomani, vedendo in una chiesa una foto di Giuseppe Moscati, riconoscerà l’uomo del sogno: è lui, è il medico della speranza. Vengono attivati gruppi di preghiera per chiedere intercessione al Beato per la guarigione del giovane.  Pochi mesi dopo, il Montefusco tornerà a fare il fabbro in buona forma fisica, senza necessità di continuare le cure. Non c’è più traccia della malattia, priva di una plausibile spiegazione scientifica.

È questo il miracolo, ritenuto tale dalla commissione vaticana (la Congregazione per le Cause dei Santi), che consentirà a Giovanni Paolo II di completare il percorso della canonizzazione. Un emozionato Giuseppe Montefusco, non ancora trentenne e in piena salute, consegnerà al Papa, nel corso della cerimonia, una sua realizzazione in ferro battuto raffigurante il volto di Gesù.

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