La vita è un cubo

di SARA DI GIUSEPPE –

Národní Divadlo – Laterna Magika
CUBE LaternaLAB – Regia: Pavel Knolle, Coreografia e sceneggiatura:  Štĕpán Pechar  –  David Stránský, Musica: Jan Šikl
Laterna Magika – Teatro Nazionale – Praga, 19 0ttobre 2019 – h20

Forma reale e simbolo, il cubo: figura geometrica e funzionale astrazione, ma anche luogo reale – edificio, abitazione, stanza, spazio scenico – che contiene le nostre vite; forma irreale-onirica, nell’arte, e paradigma “dell’infinita possibilità tridimensionale di mutamenti e di variazioni” (Pavel Knolle). Laterna Magika, palcoscenico sperimentale del Teatro Nazionale di Praga – nello spettacolare edificio brutalista di Karl Prager – è il contenitore perfetto di questo odierno “Cube”: omaggio, nelle procedure tecnologiche e nel motivo ispiratore, a quell’esperienza unica che Laterna Magika  fu negli anni Sessanta, primo teatro multimediale al mondo e successo cecoslovacco all’Expo di Bruxelles del ‘58; avanguardistica sintesi di teatro, danza, musica, proiezione, lavoro con lo spazio, sfida all’orientamento politico-estetico del tempo, che da allora fino ad oggi ha messo in campo i migliori talenti mondiali tra registi, drammaturghi, coreografi.

La potente creazione del trio Knolle-Pechar-Stránský – l’attualissimo “Cube” – lega danza contemporanea e arte multimediale, principi originali di Laterna Magika arricchiti dalle più moderne tecnologie; li dispone in sequenze compiute pur se prive di trama narrativa; le fonde col gioco degli elementi visivi; risponde a un tessuto musicale che a suoni industriali e minimalisti alterna aree musicali intimistiche e fragili, e monumentali assolo di archi.

È il palcoscenico stesso la forma dominante, un mondo che i giochi visivi sgretolano in micro-mondi sul cui prevalente bianco e nero, così come nel caleidoscopico frantumarsi dello spazio, la fisicità degli otto ballerini accompagna o si oppone, più spesso si fonde con l’astrazione geometrica delle visioni nelle quali ogni spettatore cercherà, forse trovandole – come osservano gli autori – le proprie personali e originali connessioni.

E il linguaggio della danza, nella mutevolezza di un luogo scenico in continuo movimento e frammentazione, si fa metafora delle forme dentro le quali agisce il nostro quotidiano: siano esse spazio fisico o interiore, è nel loro perimetro che si consuma il nostro reale, così come il sogno o l’incubo, nell’ambiguo labile confine fra realtà e illusione.

È così in STÍN – The Net – dove “la struttura delle nostre vite, la struttura dei nostri sogni”  si concentra in un movimento unico e ossessivo che coinvolge il palco intero e sembra che tutto il mondo si muova in tutt’uno coi danzatori; è così nel solipsistico “StÍn” – Shadow – dove il solista danza con la propria ombra – “poter vedersi dall’esterno e vedere l’ombra della propria anima”…  – e questa si duplica e si moltiplica, alter ego che insegue, si nasconde, schiaccia; ed è in “Labyrint” che la ricerca di sé – “tra solitudine e vicinanza” – naufraga nell’indistinto magma della realtà virtuale, nell’illimitato edonismo e nella perdita d’identità, nella solitudine di relazioni interpersonali ridotte a soli emoticon.

È così, infine, nel misterioso esoterico “Nirvana” dove la tensione lirica verso un altrove, verso “una galassia non restituibile e altra” riconduce lo spettatore a quell’incerto limite fra realtà e sogno lungo il quale indistintamente percepiamo – nella vita come nell’illusione teatrale – che, al di là di ogni nostra prosopopea,  “siamo formati degli elementi de’ quali si compongono i sogni ”.

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