Il canyon di Cupra Marittima e la sua foresta

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Il concetto di foresta è nell’immaginario di tutti e a nessuno verrebbe in mente, tranne a ricercatori e botanici, di suddividerla per categorie, per specie faunistiche e tipologia di arbusti. La foresta, nelle nostre visioni, è qualcosa che richiama l’archetipo: primordiale, intatta e che perdura nel tempo senza contagio umano, senza segni di questa o quella civiltà, che non conosce diversità se non quella del proprio ecosistema. Alberi grandi e fitto sottobosco, felci giganti, rocce che nei secoli hanno assunto la forma voluta dallo scorrere di piccoli o grandi corsi d’acqua, diventando canyon, rappresentazioni artistiche di una natura perfetta, dominante, intimista, assoluta, silenziosa. Vera.

E quando l’uomo è lì, sente il rispetto dovuto, sente l’appartenenza a qualcosa di più ampio, avverte la relatività dei suoi microcosmi e, soprattutto, ne avverte l’inconsistenza. Cosa c’è di più vacuo di un mondo sociale costruito su presupposti, su valori di facciata e rendimenti economici, spingendoci in ciò che, nel profondo, non siamo? La foresta non ha bisogno di identificazione, semplicemente “è”. All’uomo, il gesto dell’umiltà, la necessità di spogliarsi per entrare in simbiosi, per sentirsi in sintonia con la Natura, riconoscendone la maternità.

Questa premessa lascia supporre che si sta parlando delle foreste pluviali o, più semplicemente, di quelle fluviali, ricchissime di vegetazione, fitte, alberi grandi secolari ed altri piccoli e giovani, spazi quasi inaccessibili per la presenza di felci ed equiseti che lastricano per intero il suolo. Verrebbe da pensare che dovremmo andare lontano per osservare da “dentro” un’intatta natura di quel tipo. Invece è dietro l’angolo, a pochi chilometri dal mare e poche centinaia di metri dall’asfalto delle strade e dalle attività umane.

È stata questa l’esperienza di un gruppo di walkers, muniti dei loro bastoncini da Nordic Walking, scarpe da trekking e zainetti a spalla. Lasciate le auto a bordo strada, nella contrada San Michele, i camminatori dell’Adriatico Team Nordic Walking, capitanati dall’istruttore Tonino Luciani e pensando al solito sentiero collinare panoramico, si sono ritrovati in quello che nel gergo locale è chiamato il canyon di Cupra Marittima, ovvero il percorso del Fosso di Cacarabbia. Il percorso in sé non è difficoltoso, né troppo lungo, ma quello che stupisce è l’entrare in un ecosistema che non ti aspetti, in tutto simile ad una foresta fluviale, con grandi querce, un manto d’edera che fa da tappeto ovunque, bellissime felci. E quella piacevole sensazione che l’uomo non ha disfatto nulla. Gli alberi che cadono rimangono lì, fanno parte dell’ambiente, contribuendo ad un habitat originale.

Le rocce arenarie, lavorate dai corsi d’acqua invernali (ora asciutti, in estate) hanno assunto la tipica conformazione da canyon e, nell’attraversarle, percepisci il senso dell’avventura, quella gioia semplice, denudata dagli stereotipi e dalle sovrastrutture mentali. Si, semplicità è la parola chiave: quella della natura che è sempre se stessa, quella di chi sa apprezzarla e rispettarla, sa osservarla e trarne giovamento sensoriale, emotivo e, non ultimo, spirituale. Non c’è competizione tra i camminatori, in generale, e a maggior ragione in un contesto come questo. Molte le micro-soste, per apprezzare dettagli, per stupirsi, per scattare una foto, per una riflessione ad alta voce e forse, in qualcuno, per un’intima preghiera spontanea, riconoscendo al termine preghiera l’accezione più bella, il rivolgersi a ciò che ritieni sacro: in questo caso, l’espressione di una natura autenticamente selvaggia.

Il percorso termina, i ricordi restano. Il desiderio di tornarci persiste. Ci si saluta leggeri. Ognuno porta nel cuore la sua personalissima sensazione dell’esperienza. Si torna a casa con un po’ di sana stanchezza fisica, mitigata dal piacere della scoperta inaspettata e sorprendente, con la solidarietà rafforzata verso le foreste violate e ferite, come quella amazzonica. Solidarietà che si estende ai popoli nativi che ancora le abitano, rispettandole. Camminare equivale a comprendere, in modo sottile, le infinite sfumature dell’esistere.

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