Torna “Il Vicario” di Hochhut nella versione del maestro Di Bonaventura

di ALCEO LUCIDI –

GROTTAMMARE – All’interno delle commemorazioni per la “Giornata della Memoria” – istituita il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di Auschwitz dalle truppe sovietiche, con legge dello stato italiano del 20 luglio su iniziativa del deputato Furio Colombo e sulla scorta della risoluzione dell’Onu del 2005 – il Comune di Grottammare, in accordo con l’Associazione “Blow Up”, ha voluto ricordare presso il polo culturale dell’Ospitale delle Associazioni l’eccidio di oltre sei milioni di ebrei, zingari, malati di mente, dissidenti politici, omosessuali, tristemente noto come Shoah. “La più grande fabbrica di morte concepita da umani”, si legge nel foglietto di sala distribuito nel pomeriggio di domenica 27 gennaio, è al centro dell’opera teatrale “Il Vicario” di Rolf Hochhut, messa in scena dalla compagnia Aoidos, guidata dall’impareggiabile Vincenzo di Bonaventura. L’attore non è nuovo all’iniziativa – la porta in scena almeno dal 2007 – ed è, anzi, l’artefice di un tipo di teatro che fa proprio della testimonianza civile il suo fulcro. Per l’occasione ha nuovamente riscritto, riadattato, riletto il dramma storico fluviale dell’autore tedesco Hochhut, ormai quasi nonagenario, composto nel lontano 1963.

Il testo offre degli orrori nazisti, della deportazione di massa nei campi di concentramento, della sistematica, scientifica, strutturata eliminazione di bambini, donne, uomini indifesi, una ricostruzione talmente minuziosa ed impietosa, nel profluvio dei dialoghi che corrono paralleli alla precipitazione e l’ingolfamento della vicenda drammatica, da apparire ancora oggi – commenta Di Bonaventura ad apertura dell’incontro – “un meccanismo scenico-teatrale-letterario unico e perfetto”. Certo, si tratta di una materia incandescente su cui nessuno avrebbe mai voluto lavorare ma che il drammaturgo tedesco rende in tutta la sua potenza espressiva e ricchezza storico-documentaria, tanto da venire a rappresentare, a tutt’oggi, un libello, uno scritto di rivolta e denuncia, un potentissimo detonatore di coscienze. Il corposo J’accuse di Hochhut, prosa allo stato puro, quasi impossibile da rappresentare compiutamente – e non a caso Vincenzo ne offre sempre versioni più o meno ampie a seconda che voglia toccare le corde dei giovani con brevi fiammate incendiarie facendo rivivere i momenti salienti di una storia di codardia, ingiustizia, attendismo ma anche passione etica, coraggio, resistenza al male oppure proceda con il passo, pur nella concitazione del testo, dell’attento anatomista che, nelle sue oltre quattro ore di durata (come successo ieri), insiste sulla testimonialità massima del racconto – fece, come è facile immaginare, scandalo.

Costrinse alla riapertura degli archivi vaticani; portò alla rocambolesca rappresentazione del 1965 a Roma, dove, all’interno di un cantina improvvisata a teatro, la pièce diretta da Carlo Cecchi, con Gian Maria Volonté come protagonista, venne interdetta dal prefetto di Roma scatenando veementi sit-in di protesta per l’intervento della polizia; condusse alla pubblicazione della Feltrinelli del 1964 e, in versione economica, del 1967, variamente osteggiata e riproposta da un piccolo editore di Porto San Giorgio, Wizard, nel 2008.
Perché tanta durezza verso un’opera che voleva descrivere la paralizzante assurdità del Male scatenato, senza alcun motivo, nei confronti di persone inermi? Perché tante opposizioni a chi voleva ristabilire i giusti contorni, il giusto grado di verità attorno ad una vicenda straziante, di inconcepibile spietatezza – eppure accaduta da parte di gente che leggeva Goethe ed ascoltava Mozart – “l’antefatto di un teatro che vorremmo abolito, cancellato dalla storia della nostra vita” (recita il cattolico Carlo Bo nella prefazione al Vicario del 1964).

In questa ossessionante requisitoria campeggiano personaggi esisti e personaggi di finzione, ricondotti alla realtà dei fatti. Tra questi, Riccardo Fontana, giovane gesuita, figlio di un plenipotenziario del Vaticano, vicino al pontefice Pio XII, che, battendosi per la causa della denuncia dei crimini nazisti in Europa, resterà fedele al suo slancio umanitario, morendo in un carro della morte assieme ad altri deportati. Tra i personaggi storici – la maggior parte – invece, il Prevosto del Duomo di Santa Edvige in Berlino, Padre Bernhard Lichtenberg, che tuonò contro i silenzi della chiesa, ed in particolare del Vicario di Cristo in terra, contro le scivolose acquiescenze, i cervellotici equlibrismi politici o le difese ad oltranza di posizioni di potere acquisite (incluso lo stesso Concordato con Hitler) da parte di pesanti e grottesche figure ecclesiastiche, e l’altra figura capitale, l’ufficiale-medico delle SS Kurt Gerstein, che, a costo della propria vita, dopo essere stato investito da Eichmann, responsabile del coordinamento dei lager, di testare delle partite di acido prussico da utilizzare nelle camere a gas per velocizzare le esecuzioni di massa, sabotò alcune partire del terribile Zyklon B. Gerstein, oltre ad incontrare Fontana nella sede del Nunzio Apostolico a Berlino, dove, disperato, aveva indebitamente irrotto per spiegare (inutilmente) al porporato la gravità della situazione dei campi, seguirà l’amara sorte dei “traditori” del regime e di lui si perderanno le tracce.

A dare man forte al maestro Di Bonavenura nel suo allestimento si sono alternati sulla scena alcuni giovani attori della sua “officina teatrale” con i quali – parole sue – ha preparato la rappresentanze nell’arco di venti giorni con tecniche non mnenomiche ma “sensoriali ed emotive”, legate al pathos, al flusso di sangue di questo dramma torrenziale. Simone Cameli ha fatto rivivere il personaggio di Gerstein, Lirim Gela quello di Riccardo Fontana, Maria Gaetani ed Elisabetta Rubicini hanno vestito i panni di due deportate. A loro il nostro più grande plauso per essersi saputi calare con bravura, intelligenza e tatto nelle acque gelide di questo sconfinato oceano di dolore.

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