di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Il web rivela sorprese, talvolta. Di quelle che non t’aspetti e fanno piacere. Un piacere infinito che spazza via in un attimo un castello di “mi sembra che …” e reinterpreta i ricordi. In cerca di notizie, saltello da un Wikipedia all’altro e di rimando in rimando, link su link, ecco lui, Gianpaolo D. (ometto il nome completo). Ha l’aria soddisfatta e tranquilla di chi non è più in cerca affannosa di qualcosa, anzi, ha da dire e da raccontare. Che buffo! In un attimo torna alla mente il film emotivo dei ricordi di due amici, due universitari un po’ troppo intellettualoidi, con in tasca un Sartre di troppo. Lui in particolare, con la suggestione di avere lo stesso nome. Gianpaolo, dopo una serie di esami allineati e superati brillantemente, si era identificato in una visione di Jean-Paul, a modo suo, stravolgendone i personaggi. L’esistenzialismo non era più una corrente letteraria o filosofica: era un nodo mentale, un bivio senza strade. Un blocco. Non studiava più.
Voleva “il senso ultimo delle cose”. Voleva sapere perché si snocciolano vite su vite, che si affannano, fanno sacrifici, attraversano ogni sorta di situazioni e scompaiono nel nulla biologico senza aver minimamente scoperto se la loro impronta è più significativa di quella di una formica. E guai ad obiettare che grandi personaggi e le loro opere sono fari ed esempi. Guardiamo altre vite, quelle che fanno i numeri, diceva lui.
Non semplicemente esistenze difficili, ma anche quelle apparentemente “sorridenti” tuttavia afflitte da banalità, da un vuoto a perdere quotidiano, da un nulla ideologico stordente. Vite che non esprimono null’altro che “desiderare” un’automobile o una vacanza. Marionette permanenti di chi ne regola consumi, opinioni ed apparenti personalità, con stili di vita mai sfiorati dalla consapevolezza. Tuttalpiù si nascondono, una volta alla settimana, nella scatolificio della fede per far quadrare conti mai contabilizzati per davvero. Inutile dire che la “fede” è altra cosa rispetto a quell’insieme di confezionamenti che ogni religione struttura. Gianpaolo tornava al concetto di massa critica. Ed erano tempi ignari di un internet ancora da venire con tutte le sue future applicazioni. Riflessioni siffatte non erano lontane dalle argomentazioni salottiere negli ambienti universitari di quegli anni ma per Gianpaolo, che aveva preso tutto troppo sul serio, non c’era via d’uscita se non quella della depressione. Poi ci siamo persi di vista fino a Wikipedia.
Oggi siamo qui, dopo averlo cercato e contattato, all’ombra del platano nel giardino del bar. Quarant’anni si notano, ma non così tanto. Chiedo una birra e lui un semplice bicchiere di acqua fresca. Apre la sua tracolla ed estrae un bellissimo limone che poggia sul tavolo. E racconta. «Sto giocando a scacchi con mio padre, una sera d’inverno, dopo che avevo lasciato l’università. Poche parole, pochi sguardi, gesti routinari.
Poi, quell’attimo, uno solo, in cui leggi un mondo intero in una espressione degli occhi che non avevi mai notato prima. Ecco, in precedenza vedevo lui come un componente della massa invisibile e in quel momento comprendo che non è vero. Il mio girovagare tra schemi filosofici me lo potevo permettere sulle sue fatiche e il suo denaro. E non era dovuto. Non è mai dovuto se non si ha una visione, una speranza. La “speranza” è il sentimento più sacro che c’è».
Prende il coltello ed inizia a tagliare il limone, con lentezza.
«Quello sguardo mi insegna che c’è sempre l’istante in cui tutto il proprio mondo interiore, così nascosto, così apparentemente assente, sale e si rivela. L’economia spirituale di una vita si manifesta nell’attimo e bisogna saperlo cogliere. Ero troppo preso dalle mie contorsioni dialettiche – pur necessarie – per poter vedere. Da quel momento ho compreso che l’osservare oltre la superficie è la qualità da coltivare».
Finisce di tagliare a fette il limone, lo spreme nell’acqua e fa cin cin con la mia birra.
«C’è una bevanda migliore?» No, non c’è, penso tra me.
Quel limone ha una storia e le storie danno anche il sapore e il significato. Su Wikipedia avevo letto che Gianpaolo aveva realizzato dei documentari su figure “silenti”, di quelle che non lasciano impronte ma che, se esplorate, rivelano contenuti che di norma non si manifestano con parole. Li vedi nei gesti verso quel quotidiano così altrimenti asettico, li vedi nell’attenzione ai dettagli e nelle speranze nutrite. Ma occorre saper osservare per vedere e per “leggere dentro”. Una di quelle figure silenti, Mario, ha un agrumeto che per qualche giorno è stato set cinematografico. Si vedono ancora, si sentono e Mario gli spedisce i suoi limoni. Gianpaolo è un regista.
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