Il disco della settimana, Van Morrison & Joey DeFrancesco -You’re driving me crazy

di PAOLO DE BERNARDIN –

Solo nel dicembre scorso Van Morrison voleva celebrare lo standard della canzone americana con “Versatile”, un album che faceva il verso agli ultimi tre imbarazzanti  lavori di Bob Dylan. Sembrava non avesse più nulla da dire vista la quasi nullità dell’opera che certo con passerà alla storia, ma solo a quattro mesi di distanza ci riprova con un’operazione analoga e fa direttamente centro senza ombra di dubbio. “You’re driving me crazy” è il suo 39° disco in carriera e va a recuperare il passato più bello che un artista come lui, ricco di blues e di jazz e dotato di una voce unica,  ha sempre saputo regalare al suo pubblico. Già in apertura la magia di Cole Porter si respira in “Miss Otis regrets” e sembra di cadere nel piatto di “Astral weeks” e nella citazione di un capolavoro come “Madame George”. Questa volta a fare la differenza è un gran virtuoso di organo Hammond, nonché eccellente trombettista come Joey DeFrancesco, americano candidato e pluripremiato e collaboratore già di Miles Davis, John McLaughlin, George Benson, Jimmy Smith, Ray Charles, Joe Lovano e molti altri. Il suono che fuoriesce sa di anni Sessanta senza fare troppe riverenze alla nostalgia. E’ un suono moderno di come possa essere sempre moderno il jazz. Da “Hold me right there” di Eddie Vinson che si apre come un Boris Vian che va a passeggio con Ramsey Lewis sugli Champs Elisées. Sull’organo e la voce di Morrison si inserisce sua figlia Shana con una voce da perfetta corista. La band è perfetta per l’amalgama che ha con DeFrancesco col quale suona regolarmente (Dan Wilson, chitarra; Michael Ode, batteria e Troy Robert, sax tenore) ma la tecnica vocale di Morrison ed anche i suoi interventi al sax fanno la differenza. Non si tratta solo di standard dal momento che l’irlandese di Belfast va a pescare nel suo vecchio repertorio con grande sagacia: “The way young lovers do”, “All saints day”, “Close enough for jazz”, “Have i told you lately”, “Magic time”, “Celtic swing”, “Goldfish bowl” , “Evening shadow” composta a quattro mani con il clarinettista inglese Acker Bilk in un un classico giro di rockblues. Sono tutte riletture che non hanno nulla di stantio, tutt’altro. Fanno rivivere blues e rock dei Sixties con una magnificenza che solo una vero artista riesce a far emergere. Si ritrovano strade à la John Lee Hooker, Mose Allison, Jeff Beck, Alan Price e Georgie Fame e con perfetta fusione del tutto in una superlativa versione di “Travelin’ light” di James Young. La canzone che dà il titolo al disco è il classico di Walter Donaldson (cantato anche da Billie Holiday e Frank Sinatra) in cui Van Morrison sposa tutti i suoi generi più amati e lo fa con una freschezza e con una vivacità che sembravano impensabili dopo “Versatile”. Anzi se di versatilità bisogna parlare è qui in questo lavoro che si deve finire con gran divertimento per i padiglioni auricolari. E nella chiusura di “Celtic swing” Van Morrison riprende tutto se stesso, tutta la sua classe, tutta la sua vita di grande artista qual è stato.

STANDARD
(La storia delle canzoni)

Lover man (Davis-Ramirez-Sherman), 1941

“Mi sento così triste che vorrei cercare qualcosa che non ho mai avuto né baciato. Cosa mi sto perdendo? Amor dove puoi tu essere adesso?  La notte è fredda e sono così solo che darei la mia anima solo per chiamarti mia. C’è la luna lassù ma nessuno che mi ami. Ho sentito dire che il brivido di una storia d’amore può essere un sogno ma noi un giorno ci incontreremo e tu asciugherai tutte le mie lacrime. Poi sussurrerai dolcemente piccole cose nell’orecchio mentre mi abbracci e mi baci. Cosa mi sto perdendo? Amore mio dove puoi essere tu adesso?”

In realtà dietro “Lover man”, (il titolo esatto è però “Lover man (Oh, where can you be?) canzone di grande successo di Billie Holiday non ci fu una vera e propria storia dal momento che si trattava di una melodia sentimentale composta da Jimmy Davis, (Madison, Georgia 1915 – Parigi 1997)  allora soldato lontano da casa e dal suo amore che successivamente si formò alla Juilliard School in pianoforte e composizione diventando successivamente anche attore e cantante. Davis era molto innamorato della cultura francese e si trasferì a Parigi per studiare musica e rimase lì fino alla morte dopo aver inciso un disco in francese e aver composto alcune canzoni che offrì a molti artisti. Nella sua fondamentale autobiografia del 1956, “Lady sings the blues” (“La signora canta il blues”, Universale economica Feltrinelli, 1979) la stessa cantante scrive: “Jimmy Davis era sotto le armi quando compose esplicitamente per me “Lover man” e mi portò lo spartito ma sfortunatamente prima che io la incidessi egli fu spedito in Europa dall’esercito e noi due non ci incontrarono mai”. Probabilmente la canzone finì in mano a Jimmy Sherman, (Williamsport, Pennsylvania 1908 – Philadelphia 1975) pianista, compositore e arrangiatore che aveva lavorato negli anni Quaranta per diverse orchestre swing le cui più famose erano quelle di Lil Armstrong, Stuff Smith, Mildred Bailey e la stessa Holiday. Entrò successivamente nel gruppo dei Charioteers e vi rimase fino al 1952. Billie non cita Sherman ma riferisce che tutto il merito della cosa andò ad un pianista, organista e compositore di Portorico che rispondeva al nome di Rogelio “Ram” Ramirez (Puerto Rico 1913 – New York 1994) e che aveva lavorato con Ella Fitzgerald, Charlie Barnett, Helen Humes, Ike Quebec, Annie Ross e T-Bone Walker. A causa della guerra, di scioperi dell’industria e di dispute scambiate tra autori in quel difficile periodo tutto si fermò anche per il veto di incisione messo dal presidente degli industriali del disco e la canzone per due anni (1942-1944) restò in un cassetto. Per quel motivo Billie Holiday ruppe addirittura il contratto con la Columbia, dove c’era il suo mentore John Hammond che l’aveva portata al successo e passò alla Decca con MIlt Gabler. Aveva in testa quella canzone e pregò vivamente che la casa discografica le facesse incidere la versione con un’orchestra d’archi. Il suo modo di cantare stava cambiando e lentamente sfiorava l’architettura del pop. Gabler le diede soddisfazione totale il 4 ottobre del 1944 quando l’orchestra di Toots Camarata (emozionatissimo per l’avvenimento) accompagnò la voce della sua prima incisione che qualche settimana dopo fece capolino al 45° posto nella classifica pop e al 5° in quelle di rhythm’n’blues pur registrando un notevole successo nel jazz.  La canzone entrò immediatamente nei parametri dello standard jazz e fu molto amata dai più grandi musicisti nei decenni a seguire. Tra i primi fu, dal vivo, Charlie Parker che era pazzo di quella canzone. La incise ben 5 volte ma fu l’esecuzione del luglio 1946 a mettere la parola definitiva. Parker aveva 26 anni, era drogatissimo e totalmente intossicato ma la passione prese il sopravvento al punto tale che il produttore Ross Russell dovette reggergli il microfono con le mani. L’esecuzione andò avanti a lungo fino a diventare un vero e proprio soliloquio che si spegneva con il suono del sax sempre più flebile. Quella notte Parker tornò in albergo girando nudo per la hall, fu arrestato e mandato al manicomio di Stato di Camarillo dal quale uscì solo sei mesi dopo. Con un grande arrangiamento di Gil Evans il brano fu inciso nel 1950 da Claude Thornhill ma a lui si aggiunsero Jay Jay Johnson (1953), Lee Konitz con Stan Kenton (1953), Art Tatum (1955), Don Byas (1955), Chet Baker (1955), Johnny Griffin con Wynton Kelly (1956), Conte Candoli (1957) Jimmy Smith (1958), Lee Morgan (1958), Sonny Stitt (1960), Art Blakey con Kenny Burrell, Harry James (1961), Herby Mann (1962), Ike Quebec (1962), Barney Kassell (1963), Sonny Rollins con Coleman Hawkins (1963), Romano Mussolini (1964), Ahmad Jamal (1968), Martial Solal con Lee Konitz (1968), Lol Coxhill (1971), Thelonious Monk (1971), Grover Washington (1972), Marian McPartland con Teddy Wilson (1973), Bill Evans con Stan Getz (1974), Mario Schiano con Antonello Salis (1978), Oscar Peterson con Joe Pass (1979), Art Pepper (1982), Tete Montoliu (1983), Acker Bilk (1983), Freddie Hubbard (1983), Steve Kuhn (1984), McCoy Tyner (1987), Keith Jarrett (1989), Archie Shepp (1989), Nigel Kennedy (1990), Dollard Brand ( 1991), Guido Manusardi (1991),  Paul Bley con Jimmy Giuffre e Steve Swallow (1992), Charlie Watts (1992), Lee Konitz con Tiziana Ghiglioni e Stefano Battaglia (1993), Massimo Urbani (1994), Phil Woods (1994), Jacky Terrasson (1994), Claudio Fasoli (1995), Michel Petrucciani con Stéphane Grappelli (1996), Dave Brubeck (1996), Ben Sidran (1996), Stanley Clarke (2006), Joe Lovano (2011), Paul Motian con Bill Frisell (2011), Cyrus Chestnut con Eric Alexander (2013), Pee Wee Ellis (2014), José James (2015). Non mancarono ovviamente gli omaggi vocali a questo splendido brano, da Sarah Vaughan accompagnata da Dizzy Gillespie (1945) poi da Clifford Brown (1954), Julie London (1957), Blossom Dearie (1957), Chris Connor (1958), Della Reese (1958), Sam Cooke (1959), Dinah Washington (1964), Ella Fitzgerald (1968), Tony Bennett (1961), Rod McKuen (1961), Carmen McRae (1962), Barbra Streisand (1967), Helen Merrill (1971), Diana Ross (1972), Rosemary Clooney (1978), Sylvester (1979), Shirley Horn (1982), Patti LaBelle (1983), Marie Wilson (1983), Carol Sloane (1983), Linda Ronstadt (1983), Communards con Sarah Jane Morris (1986), Etta James (1986), Abbey Lincoln (1989), Withney Houston (1991), Susanna McCorkle (1992), Betty Carter (1994), Barbara Morrison (2000), Rebecca Parris (2001), Amy Banks (2004), Gladys Knight con Chris Botti (2005), Nnenna Freelon (2005), Robin McKelle(2008), Jaimee Paul (2009), Dee Dee Bridgewater (2010), Norah Jones (2012), Sarah McKenzie (2014), Rebecca Ferguson (2015), Southside Johnny (2017). Tra le versioni italiane tutte ben curate vanno citate quella di Patty Pravo (1972), Rossana Casale (2003), Roberta Gambarini (2006).

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