Il disco della settimana, Malia – Ripples (Echoes of dreams)

di PAOLO DE BERNARDIN –

Bello chiamare un lavoro “Increspature”, “Ripples”, soprattutto quando si affronta una situazione del tutto particolare come il ricostruire e rifare totalmente un disco proposto ben 14 anni fa, “Echoes of dreams”. Non si tratta certo di un’operazione commerciale anche perché Malia è una cantante purtroppo pochissimo conosciuta e i suoi album hanno lasciato tracce molto leggere nonostante la bellezza della sua voce e l’originalità delle sua canzoni davvero molto affascinanti, accattivanti e suggestive. Casi strani ed originali di un mercato che non sa più riconoscere lo spessore e la qualità (solo Francia e Germania le hanno riconosciuto dei meriti). Nera, originaria del Malawi, piccolo paese del sudest dell’Africa stretto tra Mozambico, Zambia e Tanzania e senza sbocchi sul mare, Malia, madre africana e padre inglese e dopo aver iniziato a cantare nella sua lingua Chewa, ha subito scelto l’inglese come nuova lingua anche perché, per ragioni politiche, la famiglia era stata costretta a trasferirsi a Londra quando lei aveva 14 anni. Molto versatile nelle sue scelte musicali Malia ha avuto la fortuna di conoscere a New York (lavorava come cameriera nei ristoranti londinesi), il musicista e  produttore Andre Manoukian che usciva dalla prestigiosa Berklee School of  Music che l’ha aiutata a debuttare nel 2002 con “Young daffodils”. Dalla collezione di suo padre sceglieva quasi esclusivamente voci nere come quelle di Billie Holiday, Sarah Vaughan e Nina Simone e il risultato emerge, due anni dopo,  col suo secondo disco, “Echoes of a dream” ma soprattutto è il 2012 l’anno che la conferma artista di estrema raffinatezza grazie all’omaggio reso alla stessa Nina Simone con la migliore esecuzione in assoluto delle sue canzoni in “Black orchid”, disco di sublime bellezza passato nel nostro paese quasi totalmente nel dimenticatoio. Unico passo falso della sua storia musicale è stata una collaborazione con Boris Blank degli Yello che in “Convergence” del 2014 ha disturbato la sua concentrazione soul per buttarla, un po’ allo sbaraglio, nell’elettronica. Ripresasi subito con “Malawi blues”, un lavoro da vera compositrice a fianco del tastierista Alex Wilson, lo scorso anno, Malia fa il suo ritorno con un disco altrettanto magico, denso di pathos come “Ripples”, nient’altro che la riesecuzione, con nuovi arrangiamenti del precedente “Echoes of dreams” mettendo a nudo ogni singolo brano rendendolo incisivo nella sua intimità, nelle sue scelte jazz, nell’omaggio quasi diretto alla voce e al timbro di Billie Holiday con indovinati accompagnamenti e arrangiamenti di Alexander Saada, il suo pianista parigino (“Man in your eyes”, “I miss you”, “Unfolding”, “Little darling”, con l’anima di Bille Holiday dentro, insieme con “Little bee” e “My love”),  di trio d’archi e piano (“Unfastened”, “After the love” “Echoes of dream”). Un disco davvero imperdibile (nell’edizione de luxe un gran regalo con le versioni di “Imagine” di Lennon e “The first time ever i saw your face” di Ewan McCall portata al successo da Roberta Flack) e denso di passione che lascerà stupefatti quanti vi si avvicineranno. Spero sia per voi la scoperta giusta.

STANDARD
(La storia delle canzoni)

Ev’ry time we say goodbye (Porter), 1944

“Ogni volta che ci diciamo addio, io muoio un po’. Ogni volta che ci diciamo addio io mi chiedo un po’ perché gli Dei sopra di me che devono essere a conoscenza di tutto abbiano così poca considerazione di me e ti lascino andare via.  Quando mi sei vicina c’è un a tale aria di primavera intorno a te che riesco a sentire un’allodola da qualche parte che inizia a cantare di te.Non esiste canzone d’amore più bella ma com’è strano il passaggio dalla scala maggiore alla minore ogni volta che ci diciamo addio”

Intellettuale ricco e famoso, Cole Porter (Peru, Indiana, 1891-Santa Monica, California 1964)  si distinse molto da tutti gli altri autori musicali americani che uscirono un po’ quasi tutti dalla gavetta. Reduce dai suoi viaggi europei e dai suoi studi di specializzazione fatti a Parigi con nomi e amicizie celeberrime (basti pensare a Darius Milhaud, Igor Stravinsky, Salvador Dalì, Nadia Boulanger), Porter, tornatoin America decise di dar vita ad uno spettacolo diverso da tutte le altre produzioni di Broadway. Nella primavera del 1944 gli fu proposta da Billy Rose una produzione in forma di rivista che rappresentasse le sette arti animate e vivaci, (“Seven Lively Arts”) una sorta di gioco da palcoscenico nel quale venissero rappresentate in tableaux vivants arti come musica, teatro, opera, balletto, radio, pittura e concerti con sette sconosciuti che incontravano sette grandi maestri del settore. Lo stesso Rose però, in autunno decise di cambiare tutto e, pensando alle celebri riviste “Ziegfeld Folies” chiese a Moss Hart di scriverci appositamente un libretto dal momento che desiderava ci fossero meno temi da trattare e più spettacolo. New York sembrava impazzita per l’attesa della prima. Tutti i biglietti vennero venduti con molto anticipo e con incasso da mezzo milione di dollari. Com’è d’abitudine negli Usa e altrove ci fu un’anteprima il 24 novembre al Forrest Theatre di Philadelphia prima del vero esordio a New York che avvenne il 7 dicembre 1944 allo Ziegfeld Theatre. A Philadelphia successe di tutto. Delusione da parte del pubblico e critiche molto negative che lamentavano l’eccessiva lunghezza dello show che ebbe soltanto 183 repliche. Alcune lamentele riguardavano un certo linguaggio inappropriato se non  volgare da parte di Porter. La star Dolores Grey si rifiutò di cantare “Dainty, quainty me” minacciando di andarsene. Nonostante la hall del teatro fosse allestito con meraviglie pittoriche di Salvador Dalì e in barba ai fiumi di champagne (sembra che fossero trecento le casse di bollicine), lo spettacolo fu bocciato con l’accusa di non avere nessuna vera ispirazione. E dire che il cast aveva dell’eccezionale per la presenza di Benny Goodman, Ted Norvo, Teddy Wilson, Mary Roche, Dolores Gray, Nan Wynn, Bert Lahr, Jere McMahon, la grande ballerina Alicia Markova che eseguiva un balletto musicato da Stravinsky ed eseguito in pas de deux con Anton Dolin, celebre coreografo. Non furono apprezzate troppo nemmeno le canzoni ad eccezione di “Ev’ry time we say goodbye” che entusiasmò tutti. Lo spettacolo fu un vero insuccesso e ebbe perdite che si aggiravano intorno ai 150 milioni di dollari. Fu il momento più critico della carriera di Cole Porter che fece un bis negativo anche due anni dopo con “Around the world” e si dovette attendere fino al 1948, anno della rinascita con il musical “Kiss me, Kate”. Certamente “Seven Lively Arts” era concepito come uno spettacolo europeo e soprattutto parigino dove avrebbe trovato vita migliore ma nella carriera di ogni grande c’è il momento del flop ma “Ev’ry time we say goodbye” resta un vertice per l’arte di Porter, nonostante vaghe e ingiuste accuse di plagio da parte di alcuni critici. Il brano fu introdotto sul palcoscenico dalle voci di Nan Wynn e Jere McMahon ma Benny Goodman, che partecipava allo spettacolo anticipò tutti con un’incisione precedente alla prima dello spettacolo, nel novembre del 1944. Contemporaneamente fu il pianista Teddy Wilson che incise nel suo disco con la bella voce di Maxine Sullivan. Fu negli anni Cinquanta, quando Ella Fitzgerald dedicò un intero doppio album a Cole Porter, che la canzone fu apprezzatissima da tutti, a cominciare dall’autore perdutamente innamorato della voce di Ella. Altra splendida versione fu quella di Mabel Mercer ma soprattutto quella di Dinah Washington. Entrò quindi nel repertorio del jazz (Oscar Peterson, Sonny Rollins,  Stan Kenton con la voce di June Christy, i Four Freshmen, Carmen McRae. Jeri Southern, Chet Baker solo e con Caterina Valente, Rosemary Clooney, Samy Davis Jr.,  Eydie Gormé, Shirley Bassey, Sarah Vaughan, Ray Charles con Betty Carter, John Coltrane, Jack Jones, Milt Jackson, Cal Tjader con Claus Ogerman, Julie London, Nat King Cole, Nina Simone, Tony Bennett, Bud Shank, Irene Kral. Negli anni Settanta la incise anche Bill Evans ma la modernità suscitò ancora molta attenzione intorno a quelle note, Keith Jarrett con Charlie Haden, Lee Konitz con Red Mitchell, Paul Blay con Chet Baker, Cheryl Bentyne, Ann Hampton Callaway, Mal Waldron con Jeanne Lee, Liza Minnelli, Chris Connor, Mel Tormé  con Cleo Laine, Marcus Roberts, Simply Red, Annie Lennox, Natalie Cole (in duetto virtuale col papà), Carly Simon, Diana Krall, Michael Keaton, Dianne Schuur,  Mulgrew Miller, Bryan McKnight, Rod Stewart, Herbie Hancock, Cliff Richards, Alison Krauss, Robbie Williams, Rufus Wainwright, Jimmy Scott (versione sublime), Chris Potter,  Mark Isham, The Mentalist, Silje Nergaard e Lady Gaga in coppia con Tony Bennett, Kurt Elling.

Copyright©2018 Il Graffio, riproduzione riservata