L’arte della retorica e la scorciatoia degli inglesismi

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Un tempo, sentirsi dire “sei retorico” sarebbe stato un grande complimento, uno dei più alti riconoscimenti. Difatti, retorico sta per attinenza alla retorica che è l’arte del linguaggio, del dire. É la sapienza linguistica, l’espressione migliore, forse elaborata, ma efficace e persuasiva. E il retore è, o meglio era, il maestro di tale scienza, un raffinato oratore dal linguaggio eloquente. Un esempio tra i più illustri, Agostino D’Ippona, meglio conosciuto come Sant’Agostino, dottore della Chiesa. Ma in vita, Agostino era il filosofo, l’appassionato professore di retorica, il grande ricercatore della saggezza e l’arte del vivere. Il suo pensiero, oltre che in forma verbale nella sua epoca, si rivela in un numero notevole di opere scritte, per il lettore a lui contemporaneo ma non solo. Il libro “Confessioni”, scritto nel 398, è attuale più che mai. Oggi, definire qualcuno retorico, è affibbiare al suo interloquire una connotazione più negativa che positiva. É come dirgli che sta “innaffiando”  il suo discorrere con banalità e ovvietà, giri di parole e riferimenti scontati. Cosa diciamo se vogliamo stroncare un libro, un film, un discorso? Affermiamo che è retorico. Un giudizio senza appello e … senza storia. Nel corso dei secoli il termine ha subito pertanto un cambio di valore andando di pari passo con l’impoverimento della lingua e della capacità espressiva. Complice anche la tastiera che ha reso l’errore di digitazione una nuova normalità e la semplificazione una necessità. Non più “il piacere del testo”, per citare uno splendido libro di Roland Barthes, ma frasi scarne, rapide e piene di equivoci, oltre che di errori. Togliamo le maiuscole, eliminiamo le punteggiature ed ecco che, oltre a frasi brutte, abbiamo espressioni il cui senso e significato dipendono dall’umore di chi legge o dalle emoticon abbinate. Insomma, nuovi geroglifici!
Tutto questo va di pari passo con l’adozione di termini anglofoni. Certo, ci sono parole nate nell’oggi che non hanno un riscontro, una storia, una traduzione rapida. Vada per Wi-Fi, ad esempio, o per wireless. Ma perché utilizzare parole che hanno un’immediata rispondenza italiana? É il caso di fashion (moda), brand (marca), trendy (tendenza), coffee break (pausa caffè), ed infiniti altri esempi.
Se conoscessimo molto bene la nostra ricca lingua e se padroneggiassimo le lingue straniere, sarebbe un bel gioco, stimolante e arricchente, usare termini inglesi, francesi, spagnoli. Un piacevole gioco linguistico e null’altro. Trascurando la nostra lingua e adottando singole espressioni esterofile, senza conoscerne storia e radici, si ha forse la sensazione di una certa modernità al passo dei tempi, ma la capacità comunicativa se ne avvantaggia? E che dire quando, disconoscendo la dignità dell’etimologia, viene modificata la pronuncia? Quanti hanno sentito pronunciare “bas” il bus? O hanno sentito “plas” al posto di plus? Eppure sono termini latini, sono nella nostra storia. Bus, ad esempio, è la contrazione di o mnibus (per tutti).  E pensare che il latino, ormai una rarità in Italia, è studiatissimo in Germania e conta un numero crescente di appassionati negli Stati Uniti. Basta fare un gi ro a Manhattan nel periodo del “Living Latin” per rendersene conto, o gironzolare nei corridoi di una qualche università americana per sentir dire “Age, egeo caffea statim”: dai, prendiamoci un caffè. Un appello finale va alla punteggiatura. Vogliamo bene a punti e virgole, soprattutto a queste ultime. Fa più danno una virgola nel posto sbagliato che un pallone in area di rigore.

Copyright©2018 Il Graffio, riproduzione riservata