Il disco della settimana, Ron – Lucio!

di PAOLO DE BERNARDIN –

Non si tratta certo solo di un disco di cover. Non è il solito omaggio ad un artista che ha lasciato un segno indelebile nella storia della nostra canzone. “Lucio!” è un grande gesto d’amore da parte di uno dei suoi figli artistici più sensibili e affermati. A Sanremo Ron aveva lasciato il segno nella grande mediocrità di canzoni del festival e lo aveva fatto con un brano apparentemente di serie B, “Almeno pensami”, fatto uscire dai cassetti di casa Dalla. Nonostante ciò la dozzina di canzoni di Dalla raccolte qui colpiscono per l’essere messe a nudo senza orpelli o sovrastrutture ma tutte rette da una delicatezza estrema nella quale solo piccoli interventi strumentali od elettronici regalano variazioni emotive. Tutto il disco è suonato con grande discrezione quasi in timida sottovoce. Dalla delicatezza della ritmica di Elio Rivagli al pianoforte, seconda voce, di un ottimo Giuseppe Barbera oltre al basso di Roberto Galinelli ogni momento del disco è un gran tuffo di stile sempre misurato nel quale i riarrangiamenti di molti classici aggiungono vitalità e grande e passionale misura che li rendono perfetti. Ci sono anche duetti virtuali quali “Piazza Grande” che è resa magistralmente tra fado e rembetiko ed anche la magnifica e delicata “Chissà se lo sai” timida così tanto da colpire il cuore. In chiusura non manca il ritorno di Lucio in “Come è profondo il mare”, brano capitale dell’intera arte di Dalla ricostruito in chiave più rock ma usando la voce originale di Lucio. Risorgono addirittura brani considerati più banali del suo repertorio quali “Attenti al lupo” ed “Henna”. Non sono da meno in profondità e delicatezza “Canzone” nella quale entrano stumenti folk come mandole e mandolini, “Tu non mi basti mai”, “Quale allegria”, “Cara”e la sempre affascinante “Futura”. Gli strumenti dell’album “Lucio!” respirano su ogni canzone e le rendono umili ma non per questo banali o minori. Ogni brano è un geniale capolavoro di minimalismo e si attaccano visceralmente ad ogni ascolto in più. Ovviamente molte altre dell’enorme repertorio di Lucio mancano all’appelloma Ron ha promesso di riprendere in mano la situazione e di provvedere per il futuro. E con queste premesse c’è da giurare che il sogno continuerà.

STANDARD
(La storia delle canzoni)

Something  (Harrison), 1969

“Qualcosa nel suo modo di muoversi mi attrae come nessuna altra amante, qualcosa nel modo in cui mi corteggia. Da qualche parte nel suo sorriso lei sa che io non ho bisogno di nessuna altra amante  qualcosa nel suo stile che mi rivela che non voglio lasciarla ora tu sai che credo in lei ora. C’è qualcosa nel suo modo di sapere e tutto ciò che devo fare è pensare a lei. C’è qualcosa nelle cose che mi mostra che non voglio lasciarla ora ma tu sai che ora credo in te”

Nel 1968, durante la registrazione di “The Beatles (meglio conosciuto come “White Album”), Harrison cominciò a lavorare su una canzone che divenne nota come “Something”. La prima strofa della canzone fu tratta dal titolo di una canzone  di James Taylor, che incideva per la Apple, l’etichetta discografica fondata dagli stessi Beatles, intitolata “Something in the way she moves” e fu utilizzata come riempitivo, mentre si stava sviluppando la melodia  Il secondo verso della canzone, “Attracts me like no other lover”, fu invece l’ultimo ad essere scritto. Harrison ebbe a dichiarare di avere un momento libero mentre Paul McCartney lavorava sui ceselli di un album già finito e che non avrebbe mai potuto contenere quel brano. In quel 1969 Harrison era già sposato con Pattie Boyd e molti pensarono che fosse lei l’ispirazione delle splendido brano. Nella biografia della Boyd pubblicata nel 2007 la stessa ebbe a dichiarare di essere la dedicataria del brano ma era già stata smentita da una precedente intervista del 1996 nella quale Harrison  per obblighi di lancio della canzone in video ammise che, assemblare le immagini delle quattro coppie nulla aveva a che vedere con l’ispirazione e la dedica a sua moglie. In realtà scrisse “Something” pensando a Ray Charles sperando che la ricevesse dalle mani di Jackie Lomax ma per strane magie e colpi bassi tra produttori “Something” fini in mano a Joe Cocker e alla sua voce graffiante che già mesi prima aveva esaltato qual capolavoro di “With a little help from my friends” degli stessi Beatles nel suo disco d’esordio. Joe Cocker non si perse d’animo e incise “Something” nel suo secondo omonimo disco ufficiale del 1969, esattamente due mesi prima dell’uscita di “Abbey Road”dei Beatles. E il trionfo fu decretato al punto tale che, mentre all’epoca molti facevano un gran calderone attribuendo ogni canzone dei Beatles ai soli Lennon-McCartney, Harrison ebbe il grande riconoscimento di avere “Something” come la canzone dei Beatles più reinterpretata dopo “Yesterday”con oltre 150 versioni. E che versioni! Fu presa subito dalla grande Lena Horne per i suoi spettacoli cui fece seguito la potente versione di Elvis Presley nel suo celebre show televisivo “Aloha from Hawai” visto da tutto il mondo. Probabilmente il segnale più positivo arrivò al gruppo da una lettera di “The Voice”. Nonostante inizialmente Frank Sinatra la introducesse con una canzone dei Beatles e non di George Harrison, (si dovette attendere il 1978 perché fosse ufficialmente riconosciuta al suo autore) l’artista scrisse un biglietto ai Beatles definendo “Something” come la più bella canzone d’amore mai scritta al punto tale che la incise ben due volte in periodi differenti. Approfittò anche il mondo black soul per intrudurla nel suo repertorio: da James Brown, Ray Charles, Smokey Robinson, The O’Jays, Isaac Hayes, Lou Rawls, Kim Weston, Martha Reeves and the Vandellas. Una portentosa spinta al successo arrivò nel 1970 con una superlativa esecuzione di Shirly Bassey che conquistò l’Inghilterra con 22 settimane continue di classifica ed entrando anche nelle charts americane. Anche il rock diede di suo con Jimi Hendrix, Joe Walsh, Jeff Lynne, Elton John e molti vocalist la acquisirono nel loro repertorio: Petula Clark, Peggy Lee, Tony Bennett. Notevole fu la versione in bossa nova ad opera di Sarah Vaughan che suggerì sicuramente quelle di Milton Nascimento e Gilberto Gil. Nel jazz molti autori se ne appropriarono ma la versione di Duke Ellington resta un must. Di recente ai vari tributi e Memorials si cimentarono ancheBob Dylan, Elliott Smith, Eric Clapton. Infine vanno ricordate la encomiabili versioni italiane ad opera di Patty Pravo e di Mina.