Settant’anni di televisione, settanta di Rai. Anzi no

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Come rimarcato anche da alcuni programmi televisivi di questi giorni, la Rai, e quindi la televisione in Italia, compie 70. Anzi no. La realtà della Rai iniziò nel 1924, esattamente 100 anni fa, occupandosi per trent’anni solo di programmi radiofonici. Le prime trasmissioni televisive iniziarono nel 1954. Due anniversari in un colpo solo. Anzi tre, perché ad essere ulteriormente più precisi all’inizio il nome non era Rai ma URI (Unione  Radiofonica Italiana). La Rai, intesa come sigla così come la conosciamo ancora oggi, Radiotelevisione italiana, fu costituita vent’anni dopo, nel 1944, e quindi ottant’anni fa. Va da sé che all’inizio erano ben pochi a vedere la televisione, per ovvi motivi. Un apparecchio televisivo nel 1960 era l’equivalente, come costo di acquisto, di tre stipendi di un impiegato medio. E nel 1954, anno d’esordio, il prezzo era decisamente proibitivo, anche 450.000 lire (l’equivalente di circa 7.000 euro odierni). Decisamente per pochi. Un operario guadagnava intorno alle 40.000 lire o poco più mensili. Per dare un’idea di quanto caro fosse il televisore, un’automobile mito, come la FIAT 500, costava sul finire degli anni ’50 anche meno di 400.000 lire. Ovvio che gli abbonati fossero una sparuta minoranza: nel 1954 erano 24.000 (oggi sono circa 21 milioni). Possedere un televisore negli anni ‘50, quindi, era uno status symbol per eccellenza. Già dieci anni dopo la diffusione iniziò ad essere più capillare e alla portata di molte famiglie, con prezzi sempre più bassi.

Da non dimenticare – e chi ha la mia età e più lo sa bene –  le nuove forme di socializzazione. Quando c’erano trasmissioni di particolare rilevanza (a quel tempo, una su tutte, il Festival di Sanremo), chi non aveva il televisore in casa si accordava con i vicini, con i parenti, con i pochi bar che già lo avevano. Si creavano gruppi, nuove aggregazioni momentanee che davano senso all’ospitalità, al piacere di condividere un fenomeno che stupiva e che lasciava increduli. Si faceva davvero fatica a capire come le persone in bianco e nero che le trasmissioni mostravano stessero lì dentro, dentro quello scatolone di plastica rigida con il vetro tondeggiante. Ma si sa, dopo un po’ non ci si pone più le domande senza risposta, o dalla spiegazione che non convince perché incomprensibile (tra gli anni ’50 e ’60 la scolarizzazione tra gli adulti era ancora piuttosto bassa). Si imparava in fretta, invece, a dibattere, a fare “effetto bar” e si imparava quella lingua non così diffusa che era l’italiano. In quegli anni, tra gli adulti e gli anziani, il linguaggio correva veloce solo con i dialetti locali. Non c’era dimestichezza con la lingua nazionale e si assisteva a gag involontarie tutte le volte che qualcuno, tra i meno scolarizzati, cercava di esprimersi con proprietà di linguaggio: battaglia persa sul nascere.

Può sembrare paradossale ma è così: il dialetto, che in questo quarto di secolo del terzo millennio si sta perdendo e si vorrebbe “restaurare” perché simbolo di identità ricche di storia e significati, era allora il nemico culturale numero uno. La televisione propose, con grande successo, “Non è mai troppo tardi”, programma condotto da un formidabile Alberto Manzi che con maestria e semplicità cercava di recuperare, a livello istruttivo, quegli adulti ancora analfabeti. Non si può disconoscere questo grande merito della televisione, l’aver unito più della politica, l’aver sprovincializzato, almeno in parte, l’aver mostrato “altro”, oltre il proprio borgo e quartiere. Il merito di aver mostrato un mondo in rapido mutamento, contribuendo a quel mito americano – “mito” a quel tempo – fatto di lavatrici e frigoriferi che da noi erano pressoché sconosciuti ai più, come lo erano i telefoni fissi in bachelite con la rotella per comporre il numero, e le automobili. Miti, appunto. Modelli economici che costituivano l’idea di una nuova frontiera che non appariva però un miraggio ma qualcosa di raggiungibile, di ottenibile.

La fiducia viaggiava più veloce della povertà, le motivazioni più delle delusioni, la speranza somigliava sempre più alla certezza: quella di farcela. Al di là di ogni altra riflessione a posteriori, senza scivolare in inutili dietrologie ed analisi dei costumi, c’è da riconoscere che quel periodo, che poi va sotto il nome di “boom economico”, quello che fu tra gli anni ’50 e ’60, fu qualcosa di più che industrializzazione  e miglioramento della qualità della vita, fu soprattutto la percezione di vivere una fase magica, dove un passato disastroso, il post-bellico, lasciava spazio con lunghi passi a un divenire visto come luminoso. In questo, la televisione di quel particolare periodo storico ha avuto un grande ruolo con programmi che – rivisti oggi ce se ne rende conto – erano di alta qualità professionale, innovativi e originali. Certo, oggi le cose sono diverse, in tutti i sensi. Diventa pressoché imparagonabile l’oggi con quel ieri. La diversificazione attuale, tecnologica e di offerta audiovisiva, in una società sempre più frastornata dal clamore della globalizzazione, è teoricamente più incentivante, eppure assistiamo a fenomeni di massa destabilizzanti e che spiazzano gli osservatori attenti. Sono passati pochi decenni e credo che sarebbe sensato riguardare quel periodo non come la preistoria tecnologica ma come un nonno saggio che ha qualcosa da raccontare, qualcosa di bello e istruttivo. Un nuovo inizio.

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