“Il silenzio degli invisibili” di Giampietro De Angelis, quella vena sottile di malinconia

 di ELISABETTA VATIELLI – 

Ho appena chiuso il libro. Scrivo a caldo, come solo so fare. Mi chiedo, e mi sono chiesta per tutta la durata della lettura: «Di chi è il silenzio» e «Chi sono gli Invisibili?». Ero sicura si trattasse dell’Autore, che dichiara, tra le pagine, di essersi sempre sentito invisibile. Anche io spesso mi sono sentita invisibile e faccio, ancora oggi, un gran clamore per essere notata. E mi dico: sì, sì è l’Autore, è Giampietro, che “non sa piangere”, che individua nel Silenzio la Fede, che “la Fede è stare zitti”. É Giampietro che ascolta tutto il silenzio dell’Universo col suo cuore di bambino, nel triste giorno.

É Giampietro, che sceglie con cura le pietre bianche, in un dialogo orante e misterioso con l’Ulivo. É Giampietro che parla con se stesso, nel silenzio. Giampietro che ama oltremodo il silenzio. Come dargli torto. Le anime sensibili amano il silenzio, come un rifugio in cui amplificare i pensieri, osservare le idee, ruminare i ricordi… Il silenzio è ineffabile e, come l’umiltà, appena lo nomini si dissolve. Difficile descrivere ciò che avviene nel silenzio, ma Giampietro ci riesce in questa sua opera breve ed intensa, con un linguaggio denso e consapevole, a volte rarefatto in sfumature metafisiche, da intuire, più che da comprendere.

Invisibili sono anche i personaggi che popolano la storia, il “senza trama”, invisibili e silenziosi. Il papà amato e dal bel sorriso, il cagnolino Jack, amato profondamente anche lui e tenuto nel cuore, negli anni. Silvia, Marta offrono la loro bellezza in silenzio. Una moglie innamorata prega con Giampietro nel giardino e gli regala due Tesori, a cui Giampietro sembra rammaricarsi quasi di non aver dato un “amore perfetto”, ma ogni amore è perfetto. Come questo piccolo libro, a cui mi sono affezionata nel leggerlo. Che mi ha fatto commuovere e sorridere, a tratti, che mi ha introdotto nel mondo della tenerezza, della dolcezza dei ricordi, osservati con trepidazione, con nostalgia, con un senso della vita che ho ammirato e condiviso.

L’immagine della “stanza”, ritiro privato e creativo, rifugio e fucina di dolore sublimato in arte, mi ha affascinata e con questa l’immagine della “cantina”, il nostro inconscio, che “forse è più bello guardare il cielo”… In tanta vitalità, in tanto muoversi dello spirito, emerge dallo scritto una vena sottile di malinconia, ammessa e confessata. Come se tutto il detto ed il vissuto non fossero abbastanza, come se l’amore dato non fosse abbastanza, come se qualcosa mancasse ad un’idea di vita perfetta. Forse un nuovo mondo da esplorare, una nuova sfida, nel lungo cammino.

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