“La Casa di Carta”, una serie che attinge agli archetipi umani per eccellenza

di PATRICIA VENA E GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Ci sono serie televisive che, se inizi a vederle, o smetti fin dall’inizio o ti senti “preso” e vai avanti nonostante qualche dubbio. Sì, perché le serie in streaming, soprattutto se lunghe, qualche dubbio tra le certezze possono generarlo. La Casa di Carta, a nostro avviso, è tra queste. Cattura l’attenzione, è di ottima qualità cinematografica e con altrettanta qualità interpretativa, anche nel doppiaggio italiano. La sceneggiatura, pur se la trama appare a tratti improbabile e forzata, è di alto livello. La fotografia è perfetta. Il segreto? L’originalità dell’idea, di cui faremo solo un cenno per non svelare troppo, ma anche altro. C’è alla base quel qualcosa che in qualche modo attinge agli archetipi umani per eccellenza: quel bisogno interiore di libertà oltre ogni restrizione, quell’assoluto volersi sentire “sospesi” rispetto agli schemi. In sintesi, ci riferiamo al mito rivoluzionario che in qualche modo è latente in ciascuno di noi e che attende il risveglio e l’occasione. E ci riferiamo anche ai sentimenti, quelli profondi. Anche se gli episodi parlano di crimini, la sfera emotiva, soprattutto tra i “cattivi” (che cattivi non sono) è fortissima, come quella degli ideali, in ognuno a suo modo.

La serie La Casa di Carta, creata da Álex Pina, è stata prodotta in Spagna tra il 2017 e il 2021. Una banda di piccoli delinquenti viene messa insieme da un Professore che li recluta, li addestra, e fa di questo gruppo una vera e propria squadra, affiatata e unita. E fin qui nessuna novità, abbiamo visto centinaia di film del genere, in cui un insieme di persone decide di fare un colpo, più o meno milionario, rapinando una banca, una gioielleria, con tutti i possibili bersagli immaginabili ed “effetti collaterali”, come avere degli ostaggi. Ne La Casa di Carta il bersaglio, però, è tutt’altro. Come i protagonisti stessi dicono “non rubano soldi a nessuno”, pur entrando nella Zecca dello Stato. Cerchiamo di non dare troppi elementi sulla storia per non sciupare l’effetto suspense in chi non l’ha ancora vista. Un altro elemento di grande originalità, e che è diventato un’icona della serie, è dato dalle maschere che portano i componenti della banda per nascondere il volto, che rappresenta una tipica espressione facciale di uno dei maggiori geni dell’arte spagnola del ‘900: Salvador Dalì.

Inoltre, la narrativa della serie porta lo spettatore, episodio dopo episodio, a “parteggiare” per i rapinatori, come peraltro succede, dentro la storia, anche tra la popolazione spagnola che segue costantemente la vicenda tramite i media che trasmettono giorno e notte dal luogo in cui si svolge il colpo. E questo, proprio per l’incarnazione di quegli archetipi a cui si faceva riferimento, facendo apparire la serie, con le sue tre stagioni (cinque parti), in un certo senso “epica”. Un epico contemporaneo, con tutti gli ingredienti che rendono tale una storia e che ha il suo senso nel vero protagonista: il piano d’azione. Ecco, il piano! Non è un dettaglio da poco, è la ragione di vita. È il voler rendere possibile l’impossibile, onirico il reale, suggestivo il rischio. È forse in questo che lo spettatore si riconosce di più, nel credere che c’è sempre un modo, sempre una via d’uscita purché non lasciata al caso, purché si sappia interagire con la mente e con il cuore.

Non mancano le storie d’amore, i fortissimi legami d’amicizia e di lealtà, un romantico senso di giustizia sociale, compreso un omaggio al movimento partigiano italiano attraverso la canzone “Bella ciao” che diventa l’inno della banda, il desiderio di onorare il sogno incompiuto del padre morto del capo, “il Professore”, la nostalgia, e perfino la pochezza di qualche personaggio tra gli ostaggi che, pur di ottenere un beneficio, è disposto a vendersi al miglior offerente. Un altro elemento non trascurabile è il mostrare la scelta, forse curiosa ma azzeccata, di fare in modo che i membri della banda non conoscano i veri nomi degli altri, ma decidono di scegliere ognuno il nome di una città del mondo per identificarsi. Così abbiamo una Nairobi, un Denver, una Stoccolma, un Berlino, un Palermo, un Helsinki, una Tokyo… Solo il capo non ha il nome di una città, ma sarà sempre “il Professore”. Come a dire che non conta l’identità anagrafica, bensì quella che ti scegli e te la senti tua come non mai. Per concludere, c’è tutto ciò che può rendere attraente una produzione di questo tipo, e una sapiente regia e un’accurata scrittura ci riescono pienamente, insieme all’estetica coreografica. In sintesi, da vedere.

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