“Il metodo Kominsky”, Hollywood raccontata dagli irresistibili Michael Douglas e Alan Arkin

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Le serie in streaming sono innegabilmente un fenomeno crescente per l’offerta ampia, per il successo che viene loro decretato dal pubblico e, aggiungo, per la qualità cinematografica che, se non per tutti, vale sicuramente per molti titoli. Per quanto una sceneggiatura non è mai semplice rappresentarla al meglio, nel caso di una serie televisiva c’è la complicanza di mantenere una coerenza di contenuto, oltre che di spettacolarità, su tutto il percorso. Tra quelle che mi hanno sorpreso, anche perché diversa nel genere, c’è Il metodo Kominsky, con un Michael Douglas in grande forma e uno strepitoso Alan Arkin a fargli da spalla. La scrittura nasce da un’idea di Chuck Lorre, autore anche di altre serie fortunate, come The Big Bang Theory e Due uomini e mezzo.

Douglas interpreta Sandy Kominsky che, dopo essere stato un attore di relativo successo, si dedica con maestria alla sua scuola di recitazione, il metodo Kominsky appunto. Arkin interpreta Norman Newlander, titolare di una mega agenzia per attori e soprattutto grande amico di Sandy. Sullo sfondo una Los Angeles di speranze e storie di vita e una Hollywood dipinta nelle sue fragilità e umanizzazione, oltre al mito di sé e a quello dei grandi personaggi. Le puntate sono brevi e scorrono veloci per l’alto senso umoristico delle battute. I dialoghi, anche quando seri e impegnati, non prescindono quasi mai dalla vena sarcastica (soprattutto nei due protagonisti menzionati) e ciononostante sono ricchi di umanità, fanno riflettere. C’è una sana leggerezza che attraversa i dolori e le delusioni, le speranze e le certezze.

Fanno tenerezza, talvolta, gli studenti aspiranti attori con le loro pseudo convinzioni di incrollabile fede nell’arte attoriale, certi che il mondo li stia aspettando. Fa tenerezza Kominsky nel tentativo, pur nel suo stile di vita un po’ dissoluto e trasandato, di guidare i ragazzi della scuola sulla cognizione di loro stessi, liberandoli dai fronzoli delle barriere mentali e degli schemi precostituiti. Sì, si ride e si sorride spesso, ma di quel riso che si tinge di ironia nel guardare la realtà senza volersi identificare pienamente in essa. Si sorride e nel farlo si riflette. Si riflette, ad esempio, sugli anni che passano, sull’invecchiamento, sulla morte, sui valori autentici, sul senso delle cose.

È questa la magia, a mio modestissimo avviso, della serie statunitense, composta di tre stagioni e ventidue episodi, ognuno dei quali dura circa trenta minuti. È la magia di condire contenuti vasti e impegnati con il tocco lieve, con l’umorismo, il non dare eccessivo peso alle situazioni, pur non nascoste e non evitate. In un certo senso possiamo dire che resta nello spettatore quella sensazione di aver partecipato ad una lezione di vita e di stile, con semplicità e un pizzico di complicità.

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