La Festa del Patrono San Benedetto Martire nei ricordi di gioventù

(foto di Giampietro De Angelis)

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Nella vita di ciascuno ci sono inevitabilmente molti ricordi. Soffermarsi, in particolare in determinate ricorrenze, su quelli dell’adolescenza è un’operazione che va oltre il senso nostalgico, è catartico ed ha il valore di una giusta attenzione a tutte quelle congiunzioni che fanno di un lungo susseguire di giorni ed anni l’esperienza della vita. Oggi, la ricorrenza catalizzatrice è il giorno del Patrono della città, San Benedetto Martire che, nei ricordi, più che una festa era la statua, quella scultura lignea che ammiravo spesso entrando in chiesa, quella della mia parrocchia del tempo, al Paese Alto di San Benedetto del Tronto. Non mi soffermo sulla storia del santo, avendolo fatto, con l’abituale maestria e perizia di informazioni, l’amico Americo Marconi su questa testata, “Il Graffio online”. Mi soffermo, invece, sulle atmosfere del tempo.

La chiesa, negli ultimi anni ’60 e i primi dei ’70 del secolo corso, per un ragazzo non era semplicemente l’edificio delle funzioni religiose, che tra l’altro avvenivano ancora in latino, almeno fino al 1970, ma era soprattutto il luogo dove vedersi e incontrarsi, fare e inventare. Vicino alla Torre dei Gualtieri, ad esempio, meglio conosciuta come lu Campanò o anche lu Turriò, con il bell’affaccio di piazza Sacconi sulla cittadina. Così come veniva vissuto il sagrato, con le sue scale di marmo dove ci divertivamo a saltare, ed io rimediai una gessatura per una rottura al piede. Uno dei luoghi per eccellenza era l’oratorio, vero fascino antico, con i suoi archetti, e poi i saloni parrocchiali dove poter fare delle feste, quelle con i giradischi gracchianti e i primi balli. Per noi maschietti, era l’occasione di sbirciare le ragazze con le prime minigonne.

Era il tempo dei figli dei fiori che non sapevamo cosa fosse, ma godevamo delle nuove tendenze: vestitini a fiori, dai bei colori primaverili, sempre più corti, capelli maschili sempre più lunghi, con quegli assurdi ed amati pantaloni a vita bassa a zampa d’elefante e le camicette dalle fantasie improponibili oggi. Parrocchia significava anche cineforum ed esperienze teatrali. Il parroco, un giovanissimo Don Romualdo, pieno di iniziative giovanili, ci proponeva ogni settimana un film impegnato sul quale dovevamo riflettere e dialogare. Come sempre accade, qualcuno prendeva la cosa sul serio ed altri no, ma lui, il sacerdote, coinvolgeva tutti. Così come coinvolgeva nel realizzare spettacoli, e lo faceva senza trascurare nulla. Non mancavano tecnici del suono e degli effetti speciali, non mancavano registi e sceneggiatori, autori ed interpreti. Io facevo parte degli interpreti: la principale fu quella di Gesù. Don Romualdo chiese di farmi allungare barba e capelli. Io ne gioii ma mia madre no. E a scuola erano tutti stupiti, compagni e professori, piacevolmente stupiti. Che periodo! Godimento puro e belle soddisfazioni.

Nella chiesa entravo spesso, per motivi diversi, ch’era vuota o quasi. Allora guardavo i dettagli, che un certo spirito d’artista, mal coltivato purtroppo, serpeggiava nella mente e nell’anima. Guardavo i dipinti e le decorazioni. Guardavo la statua del santo, non tanto per una valenza d’arte, quanto per il fascino del personaggio vissuto negli ultimi anni del 200 e i primi del 300 d.C. e che vestiva con l’abbigliamento tipico dei militari dell’Antica Roma. Solo più tardi, molti anni dopo, ho approfondito la storia di Benedetto morto martire. A quel tempo, i pensieri e le curiosità correvano su altro. Mi affascinava l’organo ad esempio che, se non erro, risale al ‘700. Davvero imponente, vedeva nel parroco un bravo organista. Ne aveva cura e rispetto e pretendeva da tutti analogo atteggiamento. Occorreva percorrere scale ripide e tortuose per arrivarvi e, una volta lì, c’era quel nonsoché di speciale, come il vedere cose mai viste prima, dettagli ch’erano sfuggiti. E mi divertiva scorgere dall’alto la navata della chiesa e le persone sui banchi. Sembrava un privilegio speciale. Da ricordare che erano anche gli anni, con la riforma che volle il rito nella lingua corrente, dei primi timidi esperimenti di modernizzazione per coinvolgere maggiormente le persone giovani.

In chiesa entravano gli strumenti musicali tipici di un complesso rock. E c’è chi andava a messa per sentire qualche assolo di chitarra elettrica. Esperimenti durati poche stagioni. Chissà, forse occorreva proseguire. Ma questo è un altro tema, pieno di incognite e contraddizioni. I ricordi si rincorrono, basta rievocarne uno per vederne molti altri. Ognuno ha i suoi, ma ognuno vive anche in quelli altrui. Ricordi che legano e liberano, che fanno sorridere e che a volte commuovono, talvolta rattristano. Ma sempre rappresentano un percorso fatto, ancora aperto, ancora pronto ad un infinito di prospettive. Che la ricorrenza del Santo Patrono sia utile anche in questo: a ricordarci di un sé e di un noi, in un divenire sempre comunque connesso a ciò che è stato.

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