L’intervista-Luca Fanesi: «Voglio la verità e non mi fermerò finché non l’avrò ottenuta»

Luca Fanesi con il figlio Christian

di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Confonde le parole quando prova a raccontarsi. A distanza di quasi quattro anni, Luca Fanesi – tifoso rossoblù rimasto gravemente ferito dopo gli scontri avvenuti nel post Vicenza-Samb, match di campionato giocato il 5 novembre 2017 – non sta ancora del tutto bene. Non è più l’uomo di prima, nel linguaggio, nel quotidiano. Non sente più odori né sapori, ha timore per i figli. Sente dolori ovunque, ha confusione nei ricordi. Quando l’ho ringraziato per aver accettato l’intervista, mi ha detto: «Sono io che ringrazio te, dovrai avere pazienza, fatico a completare le frasi, i discorsi».

Chi era Luca Fanesi prima del 5 novembre 2017?
Un uomo legato alla famiglia, uno che guardava sempre avanti, uno sportivo. Avevo dodici anni e andavo allo stadio con mio padre, i suoi amici lasciavano che suonassi il tamburo durante i cori. Mio fratello Massimiliano giocava da professionista, io mi limitavo a seguire la Sambenedettese insieme al gruppo “Futili Motivi”, anche in trasferta. Ci incontravamo davanti al Bar Astoria, pranzo al sacco e la voglia di fare festa. Il 5 novembre 2017 è stata l’ultima volta.

Qual è l’ultimo ricordo che hai di quella domenica?
Avevo preparato lo zainetto anche quella mattina, panini e birra. Siamo partiti al mattino presto coi pulmini, forse quattro o cinque. Ricordo le risate durante il viaggio. Ho qualche immagine confusa della partita, mi sembra ci fosse la pioggia. I tifosi, il fischio finale, i compagni che scendono dalla curva, io che tiro fuori l’ultimo panino e mi avvio all’uscita e poi… buio totale. Quando ho riaperto gli occhi ero in Ospedale a Vicenza.

Sono le immagini girate da un palazzo davanti allo Stadio Menti e quelle della Digos a raccontare i fatti. La partita Vicenza-Samb si è appena conclusa, le due tifoserie dovrebbero allontanarsi secondo percorsi opposti, ma qualcosa nella gestione del servizio d’ordine non funziona come dovrebbe e interviene il Reparto Mobile di Padova con i suoi agenti. I video mostrano Luca Fanesi mentre cammina, non ha nulla in mano, si sta solo allontanando dalla zona in cui i tifosi vicentini stanno lanciando torce. La sua immagine scompare dalla vista della telecamera dietro il pulmino della Polizia ed è lì che succede tutto. Lo stesso video lo inquadra di nuovo una manciata di secondi più tardi: Luca è steso a terra sanguinante e tre celerini si allontanano. Si vedono poi altri tifosi andare verso di lui per soccorrerlo, invocano l’ambulanza. Qualcuno grida: «L’ha ammazzato!».

Cos’hai provato al risveglio in Ospedale?
Tanto dolore. E una gran confusione nella testa. Non riuscivo a parlare, avevo difficoltà a fare qualsiasi cosa. È stata la mia famiglia a spiegarmi dove mi trovavo e perché. Anche dopo, quando ho cominciato a fare progressi, le giornate si susseguivano lente e confuse. Le persone venivano a trovarmi, c’erano sempre mia moglie, i miei fratelli Alessandro e Massimiliano, gli amici, cercavano di farmi coraggio ma io non vedevo la luce in fondo al tunnel. Veniva gente sconosciuta, mi dicevano: «Siamo qui per te». So che hanno aiutato la mia famiglia e di questo non li ringrazierò mai abbastanza. Venivano anche i miei figli Giulia e Christian, ma quando li vedevo andare via mi si staccava un pezzo di cuore. Mi dicevano: «Vedrai che domani starai meglio». Ma non era così.

Un mese in coma, tre interventi chirurgici, dove si trova la forza per affrontare un simile percorso?
All’inizio ero talmente grave che i medici avevano detto ai miei che rischiavo di restare un vegetale. Mia madre ogni tanto me lo ricorda anche adesso e le si riempiono gli occhi di lacrime. Devo dire grazie a tutte le persone che non mi hanno mai lasciato solo, che hanno fatto il tifo per me, la gente che non mi conosceva eppure si è fatta in quattro per sostenermi. Giorno dopo giorno realizzavo che mi veniva offerta una seconda opportunità, non potevo arrendermi.

Sei tornato a San Benedetto dopo più di quattro mesi, eri emozionato o spaventato?
Quando sono arrivato, amici e tifosi mi aspettavano allo stadio, avevano preparato una grande festa però io non mi sentivo bene, camminavo sulle mie gambe ma non ero forte abbastanza. Sono voluto andare via. Ero frastornato. Rientrare a casa è stato strano, sedermi sul divano, toccare le mie cose, sembrava passata una vita. La vita di un altro Luca. Ho proseguito le terapie, ho incontrato sanitari eccezionali. Fisioterapista, logopedista, ogni volta li ringraziavo perché mi stavano aiutando a riprendermi la mia vita. Non ci pensi mai, ma quello che fanno non è un semplice lavoro. Sono persone speciali.

Cosa ti manca per voltare pagina?
Scoprire cosa mi è realmente successo quella maledetta domenica. Io voglio sapere perché sto male, perché sono ridotto così, perché non ho più la vita di prima. Le indagini si sono concluse nel 2019 con l’archiviazione, ma con l’avv. Fabio Anselmo di Ferrara (lo stesso che ha patrocinato i familiari di Stefano Cucchi e i genitori di Federico Aldrovandi, ndr) abbiamo proposto ricorso alla Corte di Strasburgo per accertare se la giustizia italiana abbia agito correttamente. Ci sarebbero persone che hanno visto, avrebbero riferito di manganellate e calci contro di me, i manganelli però non sono stati analizzati. I sanitari del 118 mi hanno refertato con un trauma cranico durante una colluttazione con organi di Polizia, un testimone mi avrebbe sentito riferire i fatti in ambulanza prima di perdere conoscenza, ma non sarebbe stato ascoltato. Il medico legale che mi ha visitato per conto della Procura non mi ha neppure sbendato. Ha identificato quale dinamica più probabile delle lesioni una contusione prodotta dall’urto contro il suolo in una caduta accidentale. In pratica le fratture craniche, gli ematomi allo zigomo e alla fronte, me li sarei fatti da solo rimbalzando a terra ripetutamente come una palla?

Come ti fa sentire tutto questo?
Deluso e arrabbiato. Voglio la verità e non mi fermerò finché non l’avrò ottenuta. Voglio vedere i volti di chi mi ha fatto questo.

Come stai oggi?
Questo episodio mi ha profondamente cambiato, fisicamente e psicologicamente. So che in tanti hanno aiutato la mia famiglia in questi anni, da Vicenza a San Benedetto e a L’Aquila, da Ancona a Bari, gente che non conosco ha voluto darmi una mano. Ho chiesto a mio fratello di segnare i nomi di ognuno in un’agendina perché confondo i ricordi e non li voglio dimenticare. Ho ricominciato un po’ a lavorare, sto cercando di recuperare il rapporto con i miei figli, so che hanno vissuto male tutta la situazione. Hanno sofferto, quella domenica è come se avessero preso a mazzate anche loro. Il più piccolo ha undici anni, dice che da grande vorrebbe fare il vigile del fuoco, aiutare le persone, proteggere i boschi. Ho paura che possa essere un mestiere pericoloso, ma preferisco lasciarlo costruirsi il futuro che sogna. Sai che da ragazzo facevo l’Università? Studiavo Architettura, avevo anch’io dei sogni, chissà come sarebbe andata se non avessi mollato troppo presto.

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