Oriana Fallaci, dai reportage di guerra all’amore per la sua Firenze

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Erano gli anni ’70, più o meno a metà decennio, e forse per caso, o forse per un consiglio, comprai “Lettera a un bambino mai nato”, da poco in edicola. Fu il mio “contatto” con il mondo di Oriana Fallaci. Un mondo dove professione e vita privata, impegno e tempo libero sono fortemente interconnessi. Dove non c’è spazio per la banalità, il luogo comune, il sorriso fine a se stesso. Il libro è intimo, tenero e duro, con infinite sfumature esistenziali. Tuttora è in vista in biblioteca, dopo 45 anni. Da allora, ho nutrito un forte rispetto verso la scrittrice giornalista, pur non condividendo sempre le sue affermazioni. So che, qualunque cosa abbia detto, dentro quelle sue parole ci sono chiavi di lettura lucide, di chi sa guardare in profondità, di chi sa guardare in prospettiva. Oriana Fallaci si è guadagnata il rispetto di tutti, o quasi, proprio per questa sua qualità. Per la sua personalità, quella di chi non teme di parlare, non teme di affrontare e non cerca compromessi. Arte difficile, da molti teoricamente professata ma da pochissimi testimoniata realmente. Lei è uno dei testimoni. Indiscutibilmente.

Era nata nel 1929, a Firenze, e nel capoluogo toscano ha smesso di vivere, nel 2006. 77 anni di vita concreta. Oriana non ha mai scelto la via facile. L’impegno, anche politico, lo ha dimostrato fin da ragazza, partecipando alla Resistenza partigiana come inviata speciale. Sicuramente un’esperienza fortemente formativa. La dobbiamo immaginare che attraversa l’Arno con le munizioni da consegnare, con i ponti distrutti e le milizie tedesche dappertutto. La giovane Oriana, adolescente, è stata una delle tante “staffette”, molte delle quali non hanno rivisto la famiglia. L’esperienza giornalistica vera e proprio, dopo apprendistati e collaborazioni burrascose, l’ha maturata scrivendo per Epoca, prima, e per l’Europeo poi, per un buon ventennio.

Di Oriana Fallaci ricordiamo le sue grandi inchieste, grazie alle quali ha conosciuto e intervistato personaggi di primissimo piano, ricavandone materiale per libri di grande successo. Complessivamente, i libri inchiesta della Fallaci (una dozzina, tra reportage veri e propri e in forma di romanzo) sono stati venduti in tutto il mondo e in un quantitativo quantificabile in circa venti milioni di copie. Una cifra che impressiona. Ma quali sono le sue inchieste principali? La prima è stata quella su Hollywood dove non dipinge il glamour, piuttosto racconta il poco dorato mondo che popola i retroscena di un sistema appariscente e potente. É stato il suo primo incontro ravvicinato con la cultura degli Stati Uniti. Successivamente, e credo sia stata una delle esperienze maggiormente significative, si è occupata del mondo islamico, visto da donna, esaminando la condizione femminile in Oriente. E poi di nuova in America, al tempo dello sbarco sulla Luna.

Ma quello che resta, che sorprende, scuote e sensibilizza è tutto quel periodo dedicato alle guerre, al Vietnam, alle contorsioni e perversioni politiche che giustificavano le assurdità, le crudeltà, le atrocità che avvenivano in Indocina. Probabilmente, sono stati i sette anni che l’hanno resa più dura, con un linguaggio diretto che non aveva bisogno di fronzoli e retoriche. Linguaggio che l’ha caratterizzata, non facendo sconti a niente e nessuno. Ha criticato l’incompleta rivoluzione del ’68, per le sue modalità. Facile sbandierare un Che Guevara, nel comfort di ricche abitazioni e senza rinunciare ai vantaggi della borghesia.
L’elenco delle inchieste è lungo, l’ho solo iniziato. Ci sarebbe da parlare del massacro di Tlatelolco in Messico, dove era stata ferita, delle corrispondenze nelle guerre in Asia e Sud America e di quelle relative alla Nasa.

Lungo è anche l’elenco dei personaggi conosciuti e intervistati. Tra questi: il re di Giordania, Yasser Arafat, Reza Pahlavi, Henry Kissinger, Indira Gandhi, Golda Meir, Gheddafi, Khomeini (una delle interviste più famose, anche per il suo gesto di togliere lo chador in aperta contrapposizione culturale). Tra gli italiani: Federico Fellini, Enrico Berlinguer, Pier Paolo Pasolini (suo grande amico, poi). Celebre la relazione con l’intellettuale oppositore politico al regime dei Colonnelli, Alexandros Panagulus. A lui dedica un libro importante, “Un uomo”. E sulla sua morte, per “incidente”, ha sempre sostenuto fosse un attentato. Sosteneva fosse stato ucciso. Fa degli Stati Uniti la sua seconda casa, vivendo da vicino i fatti dell’11 settembre 2001. Fatti che faranno da sfondo alle sue tesi sulla islamizzazione di un Occidente in fase di decadenza, secondo la scrittrice. Molte sue frasi, scritte e pronunciate allora, vengono spesso riportate, ancora oggi, come fossero state premonitrici. Presagi di un divenire che, in più occasioni, si sono concretizzati.

Quando il cancro ai polmoni si fa più tenace, la giornalista torna in Italia, nella sua Firenze. Dice che vuole vedere l’Arno, quel fiume che l’aveva vista crescere, il fiume delle avventure partigiane. Il fiume che passa sotto il Ponte Vecchio con la sua bella torre dei Mannelli. Avrebbe voluto morire lì Oriana, proprio nella torre, guardando il fiume, sentendolo nel suo movimento regolare. Ma non è stato possibile, per carenza di condizioni. Muore nella clinica Santa Chiara. É il 15 settembre del 2006. La ospita per sempre il Cimitero degli Allori, nella tomba di famiglia. Alekos Panagulis le è vicino, idealmente, con un cippo commemorativo.

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