Intervista a Federico Moccia, lo scrittore più amato dai giovani ospite a San Benedetto

Federico Moccia con la nostra collaboratrice Eliana Narcisi e Mimmo Minuto della Libri ed Eventi

di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Sceneggiatore, regista, autore televisivo, scrittore fra i più amati e tradotti anche all’estero con oltre dieci milioni di copie vendute nel mondo, Federico Moccia torna a San Benedetto del Tronto ospite della rassegna Incontri con l’autore, organizzata dall’associazione I luoghi della scrittura in collaborazione con Mimmo Minuto e la Libri ed Eventi, per presentare il suo ultimo romanzo “Semplicemente amami”. Ecco la nostra intervista.

Dopo il grande successo de “L’uomo che non voleva amare”, torni a raccontare le emozioni e i tormenti del triangolo amoroso fra Sofia, Andrea e Tancredi. La storia di un amore o di un’ossessione?
È la storia di un uomo che può avere tutto, tranne l’unica donna che abbia mai amato. Tancredi vive in Piemonte e Sofia ha origini siciliane. Lui è un imprenditore milionario e lei una pianista incredibilmente talentuosa conosciuta in tutto il mondo. Entrambi per ragioni differenti convivono con un grande dolore e un senso di colpa che li divora e si incontrano un giorno per caso davanti a una chiesa. Mi piaceva l’idea di raccontare come la vita può far incontrare due persone adulte così diverse, che dalla vita potrebbero avere tutto e che di fronte all’amore, alla bellezza di alcune improvvise sensazioni, si ritrovano ragazzini.

C’è anche una quarta protagonista, Roma, con le sue bellezze artistiche, i locali, la cucina. Che rapporto hai con la tua città?
Roma è presente in modo particolare tra le pagine dei miei romanzi e mi piace che i lettori siano incuriositi e invogliati a visitare i luoghi che descrivo. Questa volta ho voluto riscoprire il rione Monti, alle spalle del Colosseo, con le sue stradine, i lumini, le case disabitate, una zona antica ma allo stesso tempo moderna con i negozi che vendono gli abiti più disparati e i ristoranti che usano spezie provenienti da ogni parte del mondo.

Cosa intendi quando dici «Vorrei che i miei libri fossero un pacco regalo all’interno del quale sia possibile trovare tante cose, un’esperienza multisensoriale»?
Mi piace che la lettura diventi una sorta di viaggio e che nei miei romanzi si possano trovare, oltre alla storia, gli spunti più diversi, la ricerca dei luoghi e dei locali, la musica, le citazioni di altri autori o di film che mi hanno colpito. Un libro è fatto di parole, di suoni, ma poi sarà la sensibilità del lettore a dare un’immagine a tutto quello che legge.

La trilogia “Tre metri sopra il cielo”, un successo straordinario che dura da anni e che recentemente ha ispirato la serie Netflix “Summertime”, presto verrà pubblicata negli Stati Uniti. Una soddisfazione che ha anche il sapore della rivincita per un romanzo che inizialmente hai faticato a pubblicare?
Una grande soddisfazione! Quando ho scritto “Tre metri sopra il cielo” volevo raccontare la fine del mio primo grande amore, ma soprattutto volevo scrivere il libro che io per primo avrei voluto leggere. Sono riuscito a pubblicarlo solo a mie spese, nel 1992, con una piccola Casa editrice che di lì a qualche tempo ha chiuso i battenti. Il libro, però, ha continuato a girare in fotocopia tra i ragazzi per tanti anni fino a quando nel 2000 è arrivato fra le mani di Riccardo Tozzi, produttore di Cattleya. Di lì a qualche tempo mi ha contattato per propormi di farne un film, ho accettato e le stesse Case editrici che dieci anni prima l’avevano definito troppo fantasioso e a tratti eccessivo, improvvisamente lo trovavano meraviglioso. Ho scelto di pubblicarlo con Feltrinelli, l’unica a cui non l’avevo mandato.

Qual è l’incontro che ha segnato la tua vita professionale?
Gli incontri più importanti sono avvenuti in realtà quando ero ancora piccolo. È stato il mio professore di italiano ad avvicinarmi alla lettura e all’amore per i libri, e ad insegnarmi il metodo da utilizzare per la scrittura. E poi sicuramente lavorare con mio padre è stata una grande scuola, ho imparato da lui come scrivere una sceneggiatura e come si lavora a un film. Ho anche avuto la fortuna di lavorare come autore con il grande Enrico Vaime e con Raffaella Carrà.

Il romanzo si apre con una dedica commovente a tuo padre, che tutti abbiamo conosciuto come Pipolo, uno dei più noti sceneggiatori e registi italiani fra gli anni Sessanta e Ottanta. Ti va di condividere con noi un suo ricordo?
Nella dedica lo ringrazio per il bellissimo regalo che mi ha fatto e che è, in sostanza, l’atteggiamento da tenere nei confronti della vita. Ricordo un aneddoto che mi raccontava spesso a proposito di come cambiano le persone nei tuoi confronti se hai successo. Insieme a Castellano ha realizzato commedie di successo come “La voglia matta” o “Il federale”. Una sera era insieme al regista Luciano Salce e quest’ultimo ha fatto una battuta per cui sono scoppiati a ridere tutti. Poi però Salce si è girato verso mio padre e gli ha detto: «Ma io questa battuta la faccio da anni, è sempre la stessa, com’è che prima dell’uscita di questi film non rideva nessuno?».

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