L’emergenza Covid-19 e le responsabilità sociali

Immagine di Franco Rivolli

di ALCEO LUCIDI –

RUBRICA “DRITTO E ROVESCIO”

La grande pandemia che ha attanagliato la metà della popolazione mondiale (4 miliardi di persone) con proporzioni e numeri apocalittici – oltre due milioni di morti, un numero imprecisato, perché crescente, di contagi – porrà, in un modo o nell’altro, un cambiamento alle abitudini sociali dei singoli e alle politiche economiche e del cosiddetto welfare state di tanti governi per il futuro. Per questo parlerei di un “prima” e di un “dopo” coronavirus come molti analisti, manager, scienziati già indicano. «Tutto dovrebbe cambiare senza però stravolgere – lo affermava lo scrittore Emanuele Trevi la settimana passata – le nostre individualità, i singoli modi di essere». Un virus, di una certa letalità, infido anche se, geneticamente parlando, poco mutevole e quindi forse più facilmente replicabile in vista di un vaccino efficace, non potrà mai violentare quelli che eravamo, i nostri pensieri, il campo delle nostre certezze. Eppure il senso di responsabilità individuale verso gli altri, quello sì, dovrà passare per una trasformazione.

Se è vero che si comincia dalle piccole cose – così come successo a Hong Kong con la “rivoluzione degli ombrelli” del dicembre dello scorso anno promossa da alcuni giovani attivisti tra cui Joshua Wong e che tante similitudine presenta con il movimento di riscossa civile delle “Sardine” in Italia – allora si spera che ci siano una maggiore partecipazione alle sorti della democrazia, già provata nelle sue strutture dai populismi, e un più forte attaccamento alla politica come luogo di decisione (da incoraggiare, sostenere ma, se del caso, da contestare, criticare con movimenti dal basso, di popolo ed in maniera costruttiva).

Gli Stati nazionali, va detto, soprattutto le nazioni occidentali, che più di ogni altre – soffermandoci sulle parole di Papa Francesco – si «credevano sane in un mondo malato», ossia impenetrabili alle emergenze sanitarie in contesti ambientali sempre più fragili, in ecosistemi minati dall’inquinamento dilagante, la speculazione edilizia (a cui non si è posto mai freno), le emissioni di gas inquinanti (su cui sono caduti tutti gli ultimi trattati internazionali sul clima), hanno fatto finta che nulla fosse accaduto in questi decenni, lasciando che i problemi ingigantissero.

Non solo non si è formata, tratta qualche caso, una coscienza ecologica ma si sono indeboliti i sistemi sanitari. Anche in Italia, nonostante venga additato tra i migliori al mondo e non siamo costretti a pagarci un’assicurazione per garantirci le cure necessarie come negli Stati Uniti, emarginando i meno fortunati, negli ultimi dieci anni, si è registrato un taglio ai servizi essenziali medico-sanitari di 37 miliardi di euro penalizzando le regioni più povere del paese (costrette a fare i conti, tra l’altro, con i pesanti tagli alla spesa del periodo di recessione da cui stavano tentando di risollevarsi). Mancherebbero all’appello anche 758 reparti soppressi in cinque anni e centomila tra medici ed infermieri. Sono dati impietosi che ha snocciolato Water Ricciardi uno degli scienziati nominato dal Ministro della Salute, Speranza, a capo delle relazioni con gli organismi internazionali ed ex presidente dell’Istituto Superiore di Sanità. Una vera e propria autorità, il quale ha aggiunto che si sarebbe da tempo dovuto dare vita ad un piano eccezionale di assunzioni, in uno dei settori fondamentali dello Stato, mentre invece, alla frammentazione territoriale determinata da ben 21 aziende sanitarie, si aggiungono i cronici, scarsi investimenti in ricerca (appena lo 0,2% del PIL).

Certo abbiamo gli Istituti “Spallanzani” di Roma (l’isolamento del virus viene da lì da parte di un’équipe di bravissime microbiologhe, in parte precarie) o “Sacco” di Milano dove opera Massimo Galli, tra i migliori epidemiologi al mondo (il quale sostiene che i focolai italiani più gravi, che hanno purtroppo portato agli oltre duecento mila contagi di oggi e i ventimila decessi, sono stati innescati, vedi Codogno, da eventi fortuiti e sfortunati, dove portatori sani, senza sintomi, hanno infettato molti medici e infermieri). Comunque, per resistere a questo virus, che ancora non conosciamo bene, per il quale non esistono vaccini, sperimenti farmaci antivirali e i necessari anticorpi – per questo di spera che si darà impulso alla diffusione di reagenti per i test seriologici come da più parti invocato e di un sistema informatizzato efficace di mappatura dei contagi tramite app sofisticate – servono strumenti nuovi. Certo, più tecnologia, maggiori investimenti per sostenere quelli che sono divenuti gli eroi del nostro quotidiano: i medici, gli infermieri mandati avanti, all’inizio e, in alcuni casi, ancora oggi, senza attrezzature adeguate (mascherine, camici di protezione, guanti), che tutt’Italia guarda oggi con ammirazione ma che vorrebbero sentirsi, a luci mediatiche spente – penso – meno soli.

Tuttavia, vanno fatti progetti per affrontare questa e altre possibili situazioni emergenziali. Politiche lungimiranti per la prevenzione delle malattie attraverso un sistema sanitario affidabile e programmi economici seri – altro tema delicato e fonte di tanti dibattiti spesso improduttivi – in tutte le sedi (nazionali e comunitarie). Senza retorica e senza la pretesa di avere ricette pronte, il governo italiano ha dato vita all’intervento di spesa pubblica più imponente della storia repubblicana (oltre 400 miliardi in ammortizzatori sociali, sussidi, bonus); agisce in sintonia con il comitato tecnico-scientifico messo in piedi per fronteggiare l’emergenza; si sta adoperando nelle opportune sedi europee per far sì che non vicano i personalismi (per non chiamarli in altro modo) di questo o quello Stato-membro attraverso meccanismi di intervento e dispositivi di finanziamento pubbliche al tessuto economico (imprese, liberi professionisti, dipendenti, autonomi, commercianti) che potrebbero – e già lo sono – rivelarsi poco efficaci. L’emissione di titoli obbligazionari europei (i già ribattezzati coronabond), la creazione di un fondo presso la BEI (la Banca Europea per gli Investimenti) oltre al prestito imponente garantito dalla Banca Centrale Europea per 750 miliardi (mai visto prima), invece, potrebbe assicurerebbero a tutti un gettito di quasi un milione di miliardi, impiegabili, si spera, in poco tempo, attraverso un processo condiviso di sburocratizzazione e grazie all’allentamento, storico, del patto di stabilità dell’Unione Europea.

Serve Speranza – non solo il Ministro – ma anche il nostro senso di responsabilità morale e civile che coloro che le precedenti generazioni si sono date per uscire dalla guerra nel secolo scorso e un nuovo grande patto con gli italiani, a partire dalla scuola – parole di Paolo Giordano nel suo ultimo libro Nel contagio – contro la proliferazione di voci incontrollate e di notizie non veritiere. Insomma, proprio quello che non vorrebbero le famiglie che hanno perso i loro cari, i tanti anziani rimasti soli nelle case di riposo, le persone soccorse e quelle decedute negli ospedali senza il conforto di congiunti e parenti, il personale sanitario, costretto ad estenuanti turni di lavoro e esposto sistematicamente al rischio e neanche gli uomini di studio e di ricerca che cercano faticosamente una strada per sconfiggere quello che tutti ricorderanno come il grande male di inizio millennio.


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