Papa Francesco si arrabbia e chiede scusa. Sorridiamo, non occorre scomodare opinionisti di mezzo mondo

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Mi ha fatto  sorridere vedere la scena del Papa che si arrabbia, che reagisce da umano e non da uomo delle istituzioni. Un piacere rispettoso, il mio, che non toglie nulla alla stima che nutro, anzi, la rafforza. Non mi piacciono i rigidismi da protocollo forzato. Così come al principio del suo papato, molti apprezzavano certe scelte inusuali, tipo andare a saldare il conto dall’ottico o fare telefonate a privati, ora va apprezzata la normalità dell’essere, nell’indolenza e la stanchezza, anche nella frettolosa e forse eccessiva reazione. Sul web dei social, al solito, si legge di tutto. C’è chi punta il dito contro perché un Papa è un Papa e non può sbagliare e chi apprezza il passaggio successivo, inusuale anche questo, del chiedere pubblicamente scusa. Personalmente, apprezzo la possibilità che ci possa essere un umanissimo quanto inaspettato errore comportamentale. Culturalmente, filosoficamente, sono meno interessato alle scuse. Strategicamente e forse anche moralmente giuste, ma antropologicamente meno interessanti.

Vedo come necessario la normalizzazione. Piuttosto, vedo fuori dal tempo l’appollaiarsi delle persone dietro alle transenne, nel tentativo di toccare la veste, o stringere una mano. Perché? Perché ridurre la fede a questo, a simboli-feticcio? Da un lato vorrei persone più consapevoli, dall’altro non mi interessa un Papa infallibile. Preferisco quello che abita a Santa Marta e che mostra che la persona è persona sempre, con le sue debolezze e fragilità, e che i dogmi sono faccenduole intellettuali della storia ecclesiastica. Sì, l’errore è poca cosa. Mi interessa che porti avanti le sue battaglie interne, il cambiare le cose. Certo, all’inizio sembrava inarrestabile, ora mostra qualche difficoltà, pur con molti segnali lanciati. Ma chi poteva credere che in un batter di ciglia si cambiano situazioni in una struttura gigantesca con una storia di millenni?

Nel bene e nel male, la Chiesa, nella sua totalità, è un contenitore enorme dove possiamo trovare di tutto, storicamente parlando. Ma non voglio fare delle analisi, politica o dietrologia storica. Soffermiamoci al gesto. Vediamolo con ironia, con la clemenza di chi guarda il mondo delle piccole cose sapendo che sono piccole. Mi rendo conto che il gesto dell’uomo non sempre può essere visto allo stesso modo del gesto di un capo, per di più carismatico. Ma la sfida è proprio lì. L’umanità, ad essere matura, ha bisogno di riconoscere l’uomo, non deve aver bisogno della sacralità di chicchessia. Diceva un altro Francesco, quel De Gregori rinominato Il Principe, in una sua struggente canzone “Nino cammina che sembra un uomo/Con le scarpette di gomma dura/Dodici anni e il cuore pieno di paura/Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore/Non è mica da questi particolari/Che si giudica un giocatore…”

Siamo tutti quel bambino. Con le speranze e il desiderio di farcela, ma inevitabilmente falliremo molte volte. Molte, ma non saranno segni di un destino, saranno parti di un percorso. Diamo simpatia all’uomo e agli sforzi, non facili, che sta facendo. Poi ci penserà la storia a vedere dove avrà tirato il vento, quel vento così esteticamente generoso nello sventolare la veste davanti alle telecamere, quel vento che sfogliava la Scritture alla cerimonia funebre di Papa Wojtyla. Vedremo il vento della Storia. A tempo dovuto. Ora, è sufficiente sorridere, senza scomodare gli opinionisti di mezzo mondo.

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