Il suicidio assistito: quid juris?

di GIUSEPPE FEDELI*

Il suicidio assistito  entra  a far parte del nostro ordinamento non con una legge del Parlamento, ma con una sentenza della Consulta. “La Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. È nella sostanza quanto già anticipato un anno fa nell’ordinanza 207, quando il Giudice della legittimità costituzionale aveva dato mandato al Parlamento di modificare l’attuale quadro normativo, che punisce sempre e comunque non solo chi istiga, ma anche chi collabora al suicidio di una persona, quale che sia lo stato in cui quest’ultima si trovi.

Coerentemente poi con la stessa pronuncia, la Corte subordina la possibilità di ricorrere alla “morte a comando” “al rispetto delle modalità previste sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua”, nonché “alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”. Queste ultime condizioni, precisa la Consulta, si sono rese necessarie “per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018”.

Pur con questi vincoli, la Corte continua ad auspicare “un indispensabile intervento del legislatore”. Sconcertata la Cei, unanime nel rilanciare il monito di Papa Francesco:“Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia”. La preoccupazione maggiore riguarda la deriva culturale e antropologica quanto a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità. Mentre i Vescovi confermano e rilanciano l’impegno di prossimità e di accompagnamento della Chiesa nei confronti di tutti i malati, l’auspicio è che il Parlamento riconosca nel massimo grado possibile il valore vita, anche tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta (obiezione di coscienza).

Nel coro delle reazioni a caldo, si segnala il commento di Alberto Gambino, prorettore dell’Università Europea di Roma e presidente di Scienza&Vita: “La Corte ha ceduto a una visione utilitaristica della vita umana, ribaltando l’articolo 2 della nostra Carta, che mette al centro la persona umana e non la sua mera volontà”. Nulla da eccepire: la strada verso il liberismo, anche in fatto di ius vitae ac necis – sarebbe cieco oltre che stolto negarlo- è purtroppo spianata.

*Avvocato, Giudice Onorario di Pace di Fermo