Filippo Massacci e gli amati classici della narrativa

Filippo Massacci al Teatro dell'Arancio di Grottammare

di ALCEO LUCIDI –

GROTTAMMARE – Serata emozionante quella che si è vissuta, venerdì 18 maggio, presso il Teatro dell’Arancio di Grottammare alta, presente all’interno del ricco programma di attività dell’associazione “Blow-up” , che da tempo organizza eventi di alto livello culturale. A svolgerla Filippo Massacci con un nuovo capitolo dei suoi entusiasmanti monologhi. Stavolta il racconto/viaggio si è snodato tra i meandri della narrativa di ogni tempo e a fare da filo conduttore della serata è stata ancora lei: la lettura. La lettura è più di un atto critico ed intellettuale. Nella visione di Massacci si trasforma in una compagna insostituibile, una festa dell’ingegno, un’esaltante avventura che può (e deve) trasformare le persone nel loro essere, un messaggio d’amore. Quell’amore, quella contagiosa passione Filippo la trasmette ogni volta; trasuda in ogni suo gesto, nell’inclinazione decisa, a tratti attoriale, della voce, nel suo modo di porsi (empatico) con il pubblico. Un pubblico che vorrebbe lì al suo posto – perché ognuno di noi possa, senza remore e senza timori reverenziali – come avrebbe detto l’amato e citato Borges – avvicinarsi ai libri e agli autori, riconoscersi nei personaggi, condividerne delle storie, aprire orizzonti a se stesso e agli altri.

Ma veniamo alla serata. In introduzione, Filippo Massacci traccia una breve storia della scrittura, quel bisogno, avvertito dall’uomo sin dall’antichità, di rappresentarsi attraverso segni e simboli. «Dalla notte dei tempi l’uomo si interroga per trovare un senso alla sua esistenza – esordisce – La prima traccia risale a 2500 anni prima di Cristo e descrive le vicende di un re semidio, Gilgamesh, ad Uruk nell’odierna Turchia. Ma è partire dall’IX/VIII secolo a.c. che si affina, che diventa metodo e racconto. Forse il primo libro a definirsi un romanzo fu l’Odissea di Omero, con al centro Ulisse, eroe moderno ante litteram, che affronta tutte le difficoltà con ingegno e coraggio, pronto all’ascolto, consapevole della sua fragilità». Forse è questo il grande mistero della lettura, della scrittura, della letteratura: il tentativo più alto, laico, di comprendere se stessi e quello che ci circonda.

Per fare questo il monologo parte dai grandi classici della letteratura italiana del Novecento: prima il libro Cuore di Edmondo De Amicis, con le sue struggenti, piccole storie quotidiane in un’Italia che comincia a trovare nella scuola il primo, vero afflato patriottico, civile e linguistico, poi con quello che Italo Calvino definiva «il romanzo più importante dall’Unità d’Italia»: Pinocchio. Una favola morale di Carlo Collodi con tanti insegnamenti e risvolti, tra tutti la lotta tra la felicità (seppure labile) e l’infelicità, tra il coraggio e la paura di un burattino che, sbagliando, apprende a diventare un bambino, capace di affetti.

Subito dopo sono i procellosi mari della Malesia, reinventati straordinariamente da Emilio Salgari, a riempirci di stupore, le mirabolanti storie d’amore che vi si intrecciano, le carambolesche avventure del Corsaro Nero, i gridi di battaglia contro gli oppressori inglesi della Tigre di Mompracem (sì proprio lui il grande Sandokan, rievocato in televisione dallo straordinario Sergio Sollima con Kabir Bedi!).

Ma le soprese non finiscono: La metamorfosi di Franz Kafka è uno scritto mordente e persino ironico sul nostro carico di ipocrisie, sulle maschere sociali che indossiamo, sulla natura violenta dei rapporti umani che siamo tutti costretti a subire: vittime e carnefici. L’attacco è meraviglioso, ammutolisce, sorprende l’intero auditorio. «Povero Franz – ci racconta Filippo – da oscuro assicuratore ebreo praghese, morto giovanissimo di tisi, a gigante della letteratura, misericordioso scrittore, anche lui sul banco degli imputati di un fantomatico, misterioso processo alla doppiezza dell’essere umano, al suo falso perbenismo».

Come sempre i ricordi personali si mescolano alla finzione letteraria. Una volta Massacci incontra, alla fiera del libro di Torino, uno scrittore. É Alberto Manguel: lo abbraccia, vuole stringere amicizia con lui, sentirselo amico. Maguel si apre: da commesso in una libreria a lettore personale per due anni di un vecchio cieco, il maestro Jorge Luis Borges (di cui viene letto uno stralcio da La Muraglia e i libri).

C’è ancora tempo per parlare di James Joyce, della sua opera di distruzione del romanzo tradizionale, dell’annichilimento del senso delle parole restituite al caos del mondo. Dai racconti della raccolta di novelle Gente di Dublino, Filippo sceglie l’ultimo scritto, I morti, dove in una forma ancora intellegibile, si ricompone il mistero del destino umano, insondabile e rapsodico.

Ad ogni modo l’aneddoto, forse più curioso, è una passeggiata di Massacci con la figlia al cimitero monumentale del Père-Lachaise a Parigi e l’incontro ideale, ma mica poi tanto, con Oscar Wilde, sulla cui tomba imprime un bacio scarlatto con il rossetto prestato della sbalordita accompagnatrice. Wilde ed il suo doppio di dandy impenitente (Il ritratto di Dorian Gray). Wilde e il fustigatore di costumi. Wilde e l’irruento iconoclasta che non fa mistero della sua omosessualità.

Le memorie di Adriano della Yourcenar sono un monito contro la distruzione della memoria, «l’inverno dello spirito umano» che non conosce stagioni e al quale vanno opposti «granai» di conoscenza e di saggezza.

Una saggezza popolare, condita dal dialetto e dalla sugosità di una lingua policentrica fu invece propria di un profeta inascoltato del calibro Pier Paolo Pasolini, morto quel maledetto 2 novembre 1975, all’idroscalo di Ostia (dove, a ricordarlo – fiore nel deserto! – resta solo una misera stele arrugginita). Quel giorno Filippo era con degli amici e non riuscì a capacitarsi della loro indifferenza di fronte a quella morte terribile che lasciò orfano un paese. Non potè credere che chi aveva parlato a favore della classe operaia, dei diseredati, contro il conformismo strisciante del nuovo capitalismo borghese, forse più cristiano di tanti altri credenti (o presunti tali), non riuscisse a (com)muovere le coscienze dei suoi amici, di tanti giovani come lui. Il brano tratto da Ragazzi di vita, romanzo-denuncia del 1955, è un’autentica perla di scrittura, semplice ed incisiva, plasmata nella “fanga” delle borgate romane. Il romanzo – si sa – venne messo all’indice e poi riabilitato, sottoposto ad un ingiusto processo per oltraggio alla morale. Nel silenzio generale di un Italia moralmente irretita, solo due voci – belle, importanti – si levarono a difesa di Paolo da Casarza: quelle di Giuseppe Ungaretti e di Carlo Bo che rese testimonianza diretta al processo. Ungaretti, addirittura, scrisse una lettera al Presidente del Tribunale di Milano, di fronte a quello che egli giudicava tra i romanzi più importanti del tempo.

Poi, in una successione sempre più vorticosa, un doveroso omaggio alla letteratura americana, con il Woodie Guthrie che non ti aspetti, cantore della tragedia americana della Grande Depressione, con migliaia di poveri, con il suo strascico di dolore e di disperazione. Ne uscì Questa terra è la mia terra.  Una cantante-vagabondo e dissonante Guthrie, amato da Bob Dylan, che gli dedicherà la sua prima canzone (Song for Woodie), come solitaria e ribelle alle convenzioni è stata Nada, una che prima di cantare voleva scrivere. Il mio cuore umano ha rappresentato il suo inno alla vita.

Nel suo debordante discorso, Massacci si intrattiene, con un filo di commozione, sull’amicizia avuta con Stefano Tassinari, giornalista scrittore bolognese, divorato dal cancro, sul suo impegno politico come partecipazione e dei suoi racconti sull’età della contestazione. D’altri tempi (1968-1978) è un libro che andrebbe letto da chiunque abbia voglia di capire un periodo, torbido ed esaltante assieme, della storia italiana. Filippo immagina di andare con Stefano a trovare Angelo Filipponi, un raffinato studioso e traduttore dall’ aramaico, dal greco, dal latino. Ha tradotto tutto Filone d’Alessandria; si è infilato nella vita di Cristo e lo ha reso un uomo, un intellettuale, un architetto (quale forse era, documenti alla mano). Ha scritto libri, tanti, su Caligola, sulla cristianità ellenica. In uno dei suoi ultimi volumi, L’eterno e il regno, fa parlare Jehoshua come profeta uomo che indica agli uomini la via, la Verità. L’unica possibile è quella di Jahvè, padre caritatevole che accoglie i suoi figli e chiama tutti ad un riscatto morale, spirituale.

In mezzo due donne, Sibilla Aleramo (Un donna), compagna di Dino Campana, con cui scambierà lettere meravigliose e Simona Vinci, giovane e promettente scrittrice con il racconto (Il posto dove stava meglio).

Da ultimo – si fa per dire – un cammeo. Il celebre discorso di Federico Garcia Lorca per l’inaugurazione della biblioteca del paese natale, Fuente Vaqueros. Una difesa dei libri, appassionata anche questa, e del desiderio di conoscenza ad essi ricollegato contro ogni negazione o manipolazione del sapere. Il libro è il frutto di una traduzione dello scrittore ed operatore culturale locale, Lucilio Santoni, che si adoperò per recuperare il testo in Spagna e farlo conoscere, meritoriamente, al pubblico italiano.

Leggere è certo un’operazione non semplice, ma pur sempre un gesto di condivisione, di ascolto, di ricerca interiore a cui tutti dovremmo per tanti versi affidarci. Massacci ce lo ricorda ogni volta e non andrebbe dimenticato.

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