Dalla parte di Eva, il significato del termine “disubbidienza”

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Nel giorno delle donne, l’otto marzo, torniamo ad Eva, quella biblica, per restituirle una dignità speciale. Sì, perché senza quell’Eva lì, sarebbe tutto diverso, nella storia, nella filosofia, nella comunicazione sociale e nella relazione. La parola chiave è nel significato del termine “disubbidienza”. Cominciamo con il considerare che le rivoluzioni hanno sempre origine da un atteggiamento di disubbidienza consapevole, nel risveglio di una coscienza che non vuole più nutrirsi di stereotipi e di ideali apparecchiati su una mensa cialtronesca e di facciata. La disubbidienza di cui stiamo parlando non è una scorciatoia semplice ma un atto di coraggio.

Un esempio che rende chiaro il concetto è Gandhi. La sua disubbidienza militante portò ad enormi cambiamenti nella colonia inglese, e rese lui, il Mahatma, un mito planetario. Disubbidienti, dicevamo, non per evitare una necessità ma come atto faticoso per cambiare. In quest’ottica rileggiamo i brani delle Sacre Scritture che, visti da altra angolazione, appaiono nuovi. Prendiamo la Bibbia e liberiamola, questa volta, dal ruolo impegnativo di guida spirituale. Vediamola sotto il profilo di una letteratura sul vivere, sulla condizione umana, su ciò che l’uomo è.  Questo tipo di lettura “umanizzata” ci mostra che, pur con i telefonini in mano, nulla è cambiato in migliaia di anni: gli atteggiamenti di fondo, le emozioni, le reazioni, le aspettative, non sono mai cambiate. L’umanità, tra l’altro, continua ad avere bisogno del capro espiatorio. Quale storia della croce avremmo senza Giuda? Giuseppe Berto ci fece un testo memorabile sulla necessità di Giuda alla gloria del Cristo. Il titolo, per l’appunto, era “La Gloria”.

Quale storia della consapevolezza avremmo senza Eva? Mi soffermo su questo, sulla prima disubbidienza che la letteratura ci racconta. Sul primo atto davvero rivoluzionario, talmente rivoluzionario da modificare permanentemente la condizione umana. La Genesi, con il suo simbolismo perfetto, ci introduce in uno dei drammi per eccellenza: entrare in pieno nelle proprie responsabilità.

Osservando la rappresentazione biblica con la lente del simbolismo, così come faremmo con i miti classici, immaginiamo un paradiso terrestre che perdura. Adamo ed Eva, felici nella loro obbedienza asettica, continuano la loro vita perenne, come in un perfetto club vacanze, in una ciclicità del nulla, del consueto, dell’ovvio. Forse manca qualcosa, manca un “tot” percentuale di un altro mito: Sisifo, ad esempio. La fatica fine a se stessa, ciclicamente perpetuata, apparentemente assurda, nasconde in verità – come argomentò Albert Camus nel magistrale “Il mito di Sisifo” – il miglior allenamento al qui ed ora, al riconoscimento dell’attimo come essenziale elemento del vivere.

Eva si lascia tentare, dunque. Da cosa, più che da chi? Oltre, dietro quel sipario magico della perfezione, c’è qualcosa che non conosce. In lei c’è il seme dell’esplorazione, dell’azzardo, della curiosità. C’è una necessità. Oltre, c’è la vita così com’è, ci siamo noi tutti, tormentati dalla ricerca di significato. Il percorso della consapevolezza comincia da una disubbidienza, dicevamo all’inizio. Non a caso, nel racconto biblico, Eva si scopre “nuda”: inizia a percepire se stessa come entità separata, autonoma. Inizia da lì il bisogno dell’essere umano di ricongiungersi ai perché, e inizia da lì anche una vera ricerca della fede, per chi vuol capirne l’essenza senza dietrologia e dogmatismi.
Secondo questa prospettiva, dialettica finché si vuole, occorre essere grati ad Eva per ciò che rappresenta. É l’altro verso, forse meno comodo da comprendere. Sicuramente più stimolante. Evviva Eva. E grazie a tutte le donne.