“Malamore”, il libro di poesie di Stefania Pasquali. La recensione di Gianni Marcantoni

di REDAZIONE –

In pieno lockdown Stefania Pasquali ha pubblicato un libro di poesie dal titolo: “Malamore” cioè non amore. «Ci sono voluti alcuni anni prima che mi decidessi. – spiega l’autrice –  Lo conservavo in bozza in un cassetto. Troppo forte e vero senza sconti nei suoi brevi racconti in versi poetici senza rima. L’ho dedicato a quelle donne e a quei  bambini che hanno conosciuto e fatto esperienza di ogni forma di  violenza. Come lo stesso Papa Francesco ha sottolineato ai primi di febbraio: “non possiamo ignorare il grido delle donne vittime di violenza”. Il Santo Padre esorta, in particolare, a pregare e impegnarci tutti, per le tante donne che ogni giorno subiscono maltrattamenti nel mondo. La sua intenzione è stata affidata  ad un video molto eloquente  diffuso dalla Rete Mondiale di Preghiera  per cercare di rendere visibile la drammaticità dell’argomento esplicitato dalle immagini. – conclude Pasquali –  Le parole del Papa in tante  occasioni: in Amoris laetita, in discorsi, incontri e con gesti concreti ha mostrato  la sua grande sensibilità per questo dramma che sembra non finire mai  richiamando tutti alla responsabilità». Al poeta Gianni Marcantoni il compito di commentare il libro, impreziosito dall’immagine di copertina dell’artista Giorgina Violoni.

«Nel nostro mondo i gesti di vigliaccheria non sono mai mancati. Ipocrisia, arroganza, prepotenza. Il mondo soffoca, grida, piange ininterrottamente il proprio dolore, che troppo spesso viene causato dagli uomini. Ed ecco davanti ai carnefici i deboli, gli ultimi, gli innocenti, le vittime che non sanno e non possono difendersi, ma che piuttosto devono subire, non solo dentro le mura di casa, ma anche fuori, sulla strada, dove troppo spesso regna una subdola omertà che inevitabilmente si fa, a suo modo, complice di tanta ingiustizia.    

Come fuggire e combattere tutto questo male? Come potersi salvare? Innanzitutto qui la parola dell’autrice, non è soltanto racchiusa in un verso poetico, ma si fa “coraggio”, si fa atto di “denuncia sociale”. È una parola che taglia e solca, che grida, che diventa però anche una mano tesa, che sembra voler sciogliere quel cappio mortale che lega la vittima e la libera dal suo carnefice facendola volare verso un sole alto e luminoso, metafora di speranza e di rivincita.

Queste poesie sono come lame che entrano di colpo nello stomaco del lettore e che fanno nascere in lui anche una lacrima interiore per tutte queste donne, per tutte queste vittime che la vita non l’hanno potuta realmente vivere, ma che l’hanno soltanto subita. A loro non sono state concesse possibilità di riscatto, nessuna via di fuga, se non una fuga spesso sfociata in una fine tragica, ingiusta, inaccettabile, vergognosa. Madri generatrici di vita, costrette a togliere a creature innocenti appena partorite, quella stessa vita donata in solitudine e disperazione, dentro una stalla come animali, come è accaduto a Nina, la “cianca”.  Oppure donne rinchiuse in manicomio, o finite “scomposte” fra gelide rotaie, donne sole, invisibili, che dovevano bere per non sentire la loro sofferenza e per coprire le loro fragilità.

Tutto questo non ha nulla a che vedere con l’amore, l’amore non può mai portare alla disperazione e alla morte. Non vi è nulla di umano negli squarci di vita che la poetessa racconta con immediatezza in questi componimenti sintetici, ma di lacerante profondità. I versi appaiono veloci quanto brevi e lancinanti; c’è poco quindi da “verseggiare” laddove la vita reale raccolta in questa silloge, di persone realmente vissute e fatti veramente accaduti, gronda di così tanto dolore, sangue, sudore e soffocati lamenti. Allora un pianto ci fa immergere in un silenzio ovattato ed assordante…le vittime stanno forse ancora piangendo, o forse ancora soffrendo, tacitamente, da qualche parte del mondo, seviziate in qualche angolo.

Ancora vi sono oggi donne, bambini con diritto all’infanzia, deboli vite, che vivono una condanna inflitta da chi invece dovrebbe amarli e proteggerli. Che questo grido, che questi versi di tale intensità possano davvero scuotere le coscienze sopite di molti, possano contribuire a liberare quelle anime sfruttate e sottomesse che vivono una sofferenza ignobile, per colpa di una umanità che troppo spesso, di umanità, non presenta quasi più nulla».

Gianni Marcantoni, classe 1975, nasce a San Benedetto del Tronto e vive a Cupra Marittima. Laureato in Giurisprudenza, scrive poesie dal 1991. Tra il 2010 e il 2013 gli vengono pubblicati alcuni suoi testi in varie antologie. Nel 2014 vince il primo premio assoluto al Concorso Letterario Internazionale “Versi d’agosto”. Alcune  sue pubblicazioni: Al tempo della poesia e La parete viva, 2011, Aletti; In dirittura, Vertigo, 2013; Poesie di un giorno nullo, Vertigo, 2015.

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