Detroit e Suburbicon, alla scoperta del volto oscuro della società americana

di EUGENIO DE ANGELIS –

Dicembre è un periodo tradizionalmente ricchissimo di uscite e districarsi nella moltitudine di cinepanettoni, cinepandori, horror e film a tema rischia di far passare sotto traccia opere che hanno minore visibilità, ma che meritano comunque un viaggio in sala.

Iniziamo da Detroit di Kathryn Bigelow, la regista Premio Oscar per The Hurt Locker e autrice del potente Zero Dark Thirty. Con questo suo nuovo film la Bigelow non ha paura di schierarsi apertamente su un tema particolarmente caldo negli Stati Uniti di Trump e che ben si adatta anche alle problematiche del Vecchio Continente: la questione razziale. Suddividendo classicamente il film in tre atti che ne seguono lo sviluppo drammatico la regista ripercorre i disordini del luglio 1967 per poi concentrarsi sul microcosmo di un hotel, dove il confronto tra i poliziotti e le persone di colore (e non) degenera velocemente. Sfruttando una location quasi claustrofobica la Bigelow riesce a far emergere con forza il terrore e la paura di persone normali vittime di azioni violente solo in quanto afroamericani. L’ultima parte, nonostante abbandoni l’azione precedente per diventare quasi un film procedurale, riesce ad accrescere il coinvolgimento emotivo per delle ingiustizie commesse e mai raddrizzate.

George Clooney ha dimostrato di poter essere un buon regista (nonostante l’ultimo Monuments Men fosse stato un passo falso), per questo quando si è saputo che il suo nuovo film, Suburbicon, presentato in Concorso a Venezia, sarebbe stato sceneggiato dai fratelli Coen, le aspettative sono cresciute moltissimo, anche perché aveva già dato prova di adattarsi bene allo stile dei due (L’uomo che fissa le capre). Tuttavia, nonostante un cast in parte dove svettano Matt Damon, Julianne Moore (in un doppio ruolo!) e un gigionesco Oscar Isaac, delude proprio perché tenta troppo forzosamente di essere un film dei Coen, guardando in particolare al filone di Fargo (serie tv inclusa), con gente comune della profonda provincia americana che si improvvisa criminale con esiti disastrosi. Clooney abdica così a una messa in scena personale per annullarsi nella sceneggiatura, ma senza avere la stessa brillantezza dei Coen. Lo humor nero e le situazioni paradossali ci sono e spesso colpisco nel segno (memorabile la scena del bicchiere di latte), ma manca quella capacità di elevare il tutto a parabola universale sulla mediocrità umana tipica dei due fratelli del Minnesota.

Chi è alla ricerca di un film d’autore, magari proveniente da una cinematografia che trova solitamente poco spazio nelle sale italiane, può rivolgersi senza temere a L’insulto, presentato con successo all’ultima Mostra di Venezia, dove il protagonista Kamel El Basha ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile. Il regista Ziad Doueiri ha infatti il merito di riflettere sulle tensioni del Libano contemporaneo partendo da un episodio quasi banale tra un meccanico cristiano e un ingegnere musulmano. Quella che altrove sarebbe una normale disputa tra vicini di casa per una grondaia non a norma, nel contesto incandescente in cui ha luogo fa scatenare una battaglia ideologica che trova ovviamente ampi echi in episodi del recente passato. Doueiri però decide audacemente di affrontare il tema da una prospettiva laica, senza schierarsi, ambientando parte del film in un tribunale, unico luogo in grado di esprimere – forse – un ideale di giustizia super partes. Una sceneggiatura perfetta e delle interpretazioni mimetiche lo rendono un film dalla tensione costante, in grado di stimolare però anche il pensiero critico.

Tra i film di genere usciti in questo periodo consigliamo invece American Assassin, action spionistico che si colloca a metà tra la saga di Bourne e quella di Jack Reacher che, pur non proponendo nulla di nuovo, svolge il suo lavoro egregiamente, sfoggiando la giusta dose di scene adrenaliniche, svolte inaspettate e location spettacolari. Vero e proprio valore aggiunto della pellicola è il magnifico villain interpretato da Michael Keaton, capace di oscurare anche il protagonista Dylan O’Brien.

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