di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Sono già 42 anni che lo scrittore non è più in vita. E ne sono passati 46 da quando ho letto, e riletto, il suo “Il male oscuro”. Curioso destino quello di questo libro intimista, crudo, vero, doloroso, autobiografico. Dapprima rifiutato dagli editori che, evidentemente, non avevano percepito l’immenso valore stilistico, con la sua attenta introspezione psicoanalitica, e poi, pubblicato, vince ben due premi di prestigio, Viareggio e Campiello. Forse era nel suo Dna, il dover trovare percorsi originali per dare spazio alla propria voce, al bisogno espressivo. Fatica che aveva radici lontani, nel rapporto sofferto con il padre. Il padre di Giuseppe Berto. È un libro sull’analisi del profondo, su quegli strani percorsi interiori che dal rifiuto portano all’identificazione, con tutto quello che ne deriva: nevrosi assordante e invadente, fobie ed incubi, attacchi di panico, depressione al limite della sopportabilità, malesseri fisici, di natura psicosomatica.
Tutto inizia con la morte per cancro del genitore dal quale era sempre fuggito via, fintanto che era in vita. E verso il quale torna, fino a sentirsi sempre più simile, dolorosamente. È un libro sulla psicoanalisi, sulla coscienza, in un fitto intreccio di ricordi, riflessioni, interconnessioni. Un labirinto, dove il lettore si lascia attrarre perché, inevitabilmente, ci trova qualcosa che lo riguarda. Le discese nel profondo hanno questo lato affascinante: per quanto ognuna sia irripetibile ed unica, le vie spesso si somigliano. Ognuno ha modo di specchiare la propria vita, per di più con un linguaggio che al tempo era una assoluta novità e che, come detto, non aveva convinto gli editori.
Ripercorriamo brevemente la sua biografia per poi tornare alla dialettica narrativa.
Giuseppe Berto nasce nel 1914, primo di cinque figli, in una famiglia non definibile benestante. I genitori gestiscono una cappelleria e riescono a mantenere il ragazzo a scuola fino al diploma liceale. Poi nascono i dissensi con il padre che si rifiuta di consentirgli di frequentare l’Università. Berto lascia la famiglia, si arruola nell’esercito e di sua iniziativa si immatricola a Lettere all’Università di Padova. Tuttavia, trascura gli studi e preferisce il rischio nella guerra d’Abissinia. Passa quattro anni in Africa e torna con due medaglie al valor militare che gli consentono, con la piccola rendita consequenziale, di riprendere gli studi nel 1939. Nonostante siano tempi non favorevoli, per via della Seconda Guerra Mondiale, Giuseppe riesce a sostenere tutti gli esami residui e si laurea nel 1940.
E subito pubblica “La colonna Feletti”, racconto del suo periodo in Africa, dove mette in luce la storia di quattro soldati morti da eroi, rivelando uno stile narrativo nuovo per il tempo, asciutto, privo di fronzoli, quasi giornalistico. Prova a fare l’insegnante in due scuole, ricavandone la convinzione che non è la propria strada. Torna nell’esercito e di nuovo va in Africa. Stavolta l’esperienza non è eroica. Viene fatto prigioniero nel 1943 e portato negli Stati Uniti, in campi di concentramento. Per quanto fosse dura questa esperienza, Berto ne trae forza e determinazione come scrittore. Inizia a scrivere romanzi e, una volta rientrato in Italia, propone i manoscritti agli editori. Inizialmente senza successo. Poi, Longanesi gli pubblica nel 1947 “La perduta gente” con il fortunato titolo “Il cielo rosso”.
Ed è subito successo, in Italia come all’estero. Libro importante ed impegnato, dove affronta la tematica di come la guerra trasformi la vita e i destini, stravolgendo ogni cosa ma facendo recuperare il senso della solidarietà e dell’amicizia. Il successo è tale da disorientarlo e, per alcuni anni, non riesce a ritrovare quell’alchimia e quel mix di emotività e realismo de “Il cielo è rosso”. Pubblica altri libri che non hanno fortuna, andando incontro ad una crisi personale, fatta di depressione e angoscia, tali da farlo ammalare per un decennio. E poi, nel 1964 esce il romanzo che lo rappresenta e lo rilancia: “Il male oscuro”, in cui ripercorre quegli anni, li analizza, ci entra a capofitto.
Racconta del padre ricoverato per tumore intestinale. Lui in qualche modo se ne prende cura, responsabilmente, poi riparte con la compagna, lasciandolo solo proprio quando muore. Da quella assenza derivano i sensi di colpa e tutto quel rincorrere le patologie psicologiche e fisiche, dalle coliche renali ai dolori intestinali. Passando per medici, specialisti, farmaci d’ogni tipo. Fa una descrizione minuziosa di quella malattia che diventerà ricorrente in periodi più moderni: gli attacchi di panico. Infine, Berto si affiderà alla psicoanalisi. Tutto entra nel libro: tutto è un comune fil-rouge. Tutto è ossessivamente reale. E, come un destino cinico e beffardo, lo scrittore morirà come il padre, nel 1978, con la stessa malattia.
“Il male oscuro” resta nel lettore. Diceva Roland Barthes, ne “Il piacere del testo”, che la bellezza della lettura è negli spazi vuoti, tra le parole e le righe, perché lì ti soffermi, mediti, interagisci, diventa tuo quell’immaginario che cresce, quel ricordo che riaffiora, quella riflessione che si sviluppa. E qui, nel libro di Giuseppe Berto, tutto questo è davvero inevitabile, e sorprendente.
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