“SanPa”, luci e tenebre di San Patrignano nella docuserie Netflix

di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –

Un pubblico assolutamente trasversale ha decretato il successo di SanPa e quella che sembrava una docuserie destinata a un pubblico di nicchia ha, invece, esordito col botto il 30 dicembre, balzando ai primi posti fra i titoli più visti di Netflix. Cinque episodi che ripercorrono la nascita a metà degli anni ’70 e lo sviluppo della comunità di recupero più grande d’Europa. Un racconto lungo quindici anni ricostruito grazie a centottanta ore di interviste e documenti provenienti da più di cinquanta archivi, e che si conclude con la morte del suo fondatore Vincenzo Muccioli. Nata come una comune hippy autogestita, cresciuta rapidamente nei numeri, San Patrignano viveva grazie al sostegno di investitori come la famiglia Moratti e grazie al lavoro dei ragazzi ospiti, che non pagavano una retta ma neppure venivano retribuiti per il loro lavoro. Una grande struttura indipendente rispetto al resto del Paese, uno stato nello Stato con più di duemila ragazzi sottoposti alle regole dettate dal suo fondatore che rifiutava di avvalersi di medici e psicologi, un metodo di recupero che prevedeva lavoro e obbedienza ottenuta con la violenza, un posto da cui, una volta entrati, non si poteva più uscire.

Negli anni ’70 la piaga dell’eroina era forse il problema numero uno. Chi ha la mia età sa cosa vuol dire, perché a San Benedetto i tossici erano a ogni angolo. Chiedevano soldi ai passanti, rubavano biciclette, litigavano senza una ragione. Li riconoscevi dallo sguardo perso nel vuoto, il corpo ridotto pelle e ossa, il viso incredibilmente invecchiato, perché a ogni buco di eroina corrispondono anni di vita persi per sempre. Non c’era distinzione tra periferia e centro. Non esisteva un’oasi felice in cui non li avresti incontrati mai. A volte la strada del centro era deserta, poi all’improvviso spuntavano fuori come zombie. Al corso, sotto la pineta, dalla sala giochi, dal lungomare. Correvano tutti nella stessa direzione ed era così che capivi che era arrivata la “roba”. Per l’eroina ho perso compagni di scuola, amici, conoscenti. Qualcuno si è trasferito all’estero, qualcun altro è rimasto con danni permanenti, la maggior parte sono morti, tutti hanno comunque distrutto famiglie.

I tossici non piacevano a nessuno, l’idea che fossero ragazzi fragili e bisognosi di aiuto era la meno gettonata, mancavano gli strumenti, le idee, lo Stato era in evidente difficoltà e Vincenzo Muccioli era il deus ex machina apparso improvvisamente a risolvere gratis il problema. E come spesso accade in Italia, quando le cose vanno male si spera che arrivi un uomo solo a prendere il comando. Quando sono emersi i maltrattamenti, le violenze, le catene nelle piccole e sudicie celle di detenzione, il problema non era aiutare le vittime ma trovare la maniera di giustificare chi gli stava facendo questo. Il processo del 1985 ha condannato Muccioli per lesioni colpose, ma l’opinione pubblica lo ha assolto. Nell’assenza dello Stato, lui salvava vite. Veniva invitato a tenere convegni, era ospite di programmi televisivi, difeso da politici e giornalisti. San Patrignano cresceva, si allevavano cavalli, si producevano vino e prodotti di ogni genere. Nessuno metteva in discussione i metodi dispotici, neppure quando hanno portato a violenze inaudite e diversi suicidi. La sua celebre (e orribile) frase «Vede questa matita? Se io provo a infilarla nell’anello e lei sposta l’anello, io non riesco a infilare la matita» per addossare la responsabilità degli stupri alle ragazze che li avevano subiti susciterebbe oggi il linciaggio, invece all’epoca passò quasi inosservata.

Quello scritto da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli è un documentario in cui si sospende il giudizio e si restituiscono i fatti, si riportano i numeri dei successi ma anche degli insuccessi, le vite umane recuperate come quelle perdute per sempre. Le voci narranti sono quasi esclusivamente di uomini, essenzialmente Andrea Muccioli che difende suo padre anche quando è oggettivamente indifendibile, il suo autista Walter Delogu che oggi lavora per il 118, il responsabile delle relazioni pubbliche Fabio Cantelli oggi scrittore e redattore, il figlio di Roberto Maranzano per il cui omicidio Muccioli finì sotto processo. San Patrignano è un’idea rivoluzionaria, è il recupero che vince sull’abbandono, è la vita che vince sulla morte e oggi è una ONG gestita da un Comitato di garanti aperta a visitatori e istituzioni, ma il ritratto del suo fondatore è quello di un esaltato che si credeva Dio, padre e terapeuta, un dittatore che ha plasmato a sua immagine e somiglianza una comunità mescolando bene e male perché convinto che fosse giusto fare del male per fare del bene. E il dramma è che, in qualche modo, ha funzionato. Come dice lo stesso Fabio Cantelli: «Oggi sono quello che sono grazie a lui e nonostante lui».

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