Viti e vitigni marchigiani. Storia di una campagna felice

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

C’è una modalità del camminare che ha un significato aggiunto. Non mi riferisco a stili, tecniche e atteggiamenti, bensì a quel ritmo ispirato dalla natura, a suoni e colori, forme e atmosfere che sono proprie della terra e le sue creazioni. Camminare tra i vigneti, ad esempio, a un metro dai filari, sfiorando i pampini, osservando tralci e raspi, nella tentazione di accarezzarne gli acini maturi, nel saliscendi morbido delle colline marchigiane, è un’esperienza del cammino che non si dimentica. E non c’è stanchezza, quando vengono appagate la contemplazione e quella magica sensazione che la vita respira nelle sue espressioni, che quasi la vedi tra le spire immaginarie del libeccio leggero, quel garbino piacevole che non vorresti che terminasse, tenendoti compagnia nell’attraversare il campo delle viti, uno dei tantissimi vigneti con la vista sul mare Adriatico.

Le Marche dell’agricoltura hanno una storia antica, ricca di varietà e diversificazione. Lo è anche per i suoi vitigni e la produzione del vino. I ceppi sanno di storia. Basti dire che la tradizione della viticoltura era già sviluppata al tempo dell’Impero Romano, dove erano ben conosciuti il vino Piceno e il celebre Verdicchio.  Ci sono oltre quaranta tipologie di viti distribuiti nel suolo marchigiano, in tutta la regione, in lungo e in largo, e va dato un grazie, per la qualità, proprio a quella conformazione del territorio, a quel gioco armonioso delle colline, con un clima mite che si giova della vicinanza del mare, con la linea degli Appennini nell’orizzonte dei tramonti.

Ma quali sono i vitigni autoctoni? Va subito detto che c’è un’ottima ripartizione tra uve bianche e rosse e se per varietà predominano i vitigni bianchi, in particolare l’apprezzato Verdicchio, per estensione abbiamo una suddivisione diversa, con il Sangiovese e il Montepulciano (rossi) che da soli rappresentano circa il quaranta per cento del totale delle superfici adibite a coltivazioni vitate. Mentre al terzo posto per estensione, e primo tra i bianchi, c’è il Verdicchio. Poi, seguono gli altri, con alcuni che stanno ottenendo un riconoscimento di qualità sempre più acclamato come la Passerina e il Pecorino. Tra i bianchi, oltre a questi ultimi accennati e al Verdicchio, abbiamo anche il Biancame, il Trebbiano, la Malvasia, il Maceratino (o Ribona), lo Chardonnay. Tra i rossi, oltre ai citati Sangiovese e Montepulciano, ci sono il Merlot, la Lacrima, il Cabernet Sauvignon. E poi, molti altri di un lungo elenco, di minor estensione ma di grande qualità. Come non citare, ad esempio, la Vernaccia o i Tocai?

Non entriamo nelle tante specificità enoculturistiche, come la descrizione dei sentori, dei sapori, dei rimandi floreali, richiederebbe competenza ed esperienza. Certo, c’è da smarrirsi tra dolcezza e morbidezza, sapidità e acidità. Preferiamo un omaggio romantico e più cultural-turistico. Sempre più spesso vengono organizzate gite con degustazioni, o meglio ancora, le camminate collinari con approdo in cantina, per conoscere un po’ di storia locale, il folclore, i racconti dei “vecchi”, vedere le foto in bianco e nero ormai sbiadite, mentre intorno, un po’ più in là, noti lo starnazzare delle galline nell’aia, qualche docile cagnolino in liberà che guarda con lo stupore che solo il cane sa esprimere. E l’immancabile calice in mano che lasci ondeggiare. Magari non sei bravo a farlo, ma che importa?

Il valore del gesto è quello del rituale. Il vino, quello rosso, va “ossigenato”, deve prendere aria per esprimere al meglio tutte le sue qualità, far sentire i suoi profumi. Non c’è fretta di berlo. Va sorseggiato di tanto in tanto. Intanto parli, ascolti, osservi. Ti siedi e poi cammini, il calice con te. Vai a guardare quello scorcio di panorama, quell’inclinazione della luce che ti aveva sorpreso. Tempo ce n’è, prima di ripartire, zainetto in spalla e i probabili bastoncini da trekking o da nordic walking, insieme al piccolo gruppo di amici.

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