di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
È il 4 gennaio del 1960, il rettilineo tra i platani consente una buona andatura. È un lunedì mattina, giornata un po’ fredda. C’è un’automobile sulla strada per Parigi, in ritorno dalla Riviera. L’auto è da sogno per quell’epoca, una Facel Vega FV, di produzione francese. Un coupé paragonabile, oggi, ad una Maserati. Elegante, potente, maestosa, comoda. Alla guida c’è Michel Gallimard, editore. Sul sedile posteriore siedono la moglie Janine e la figlia Anne, diciott’anni appena compiuti. Su quello del passeggero c’è Albert Camus, 47 anni, filosofo, scrittore di successo e Premio Nobel per la Letteratura, ricevuto solo tre anni prima. In tasca ha un biglietto del treno ma all’invito dell’amico editore aveva accettato un passaggio in auto. In parte perché è più piacevole fare quattro chiacchiere in compagnia, ma forse anche perché non stava troppo bene (fumo e tubercolosi avevano ormai il dominio sui suoi polmoni).
Sono dalle parti di Villeblevin, la strada è semideserta, larga, tranquilla. Parlano, scherzano un po’, progettano. Un rumore improvviso, anomalo. L’auto perde il controllo e si schianta contro un platano. Gallimard muore sul colpo. Camus ancora respira. Ancora per pochi minuti, poi muore. Qualche tempo prima aveva detto: «Il modo più assurdo di morire è in un incidente d’auto». Le donne si salvano. L’auto aveva sbandato per un cedimento strutturale. La causa di questo è ancora un giallo. Qualcuno, vicino al Kgb, dirà, anni dopo, che l’incidente stradale in cui era morto Camus era stato organizzato dallo spionaggio sovietico, sabotando l’automobile. Non sapremo mai se la verità è davvero questa. Lo scrittore si era espresso contro l’invasione sovietica in Ungheria e aveva difeso il dissidente Boris Pasternak.
Albert Camus nasce il 7 novembre 1913 in Algeria, da famiglia modesta, tant’è che dirà, ricordando gli anni poveri: «Fui posto tra la miseria ed il sole, ad uguale distanza. La miseria mi impedì di credere che tutto è bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto». Dice molto questa frase, sulla relatività delle cose, sull’interpretazione della realtà. Grazie ad una borsa di studio, frequenta Filosofia all’Università di Algeri, appassionandosi a Plotino e Sant’Agostino prima, poi a Heidegger e Sartre. Inizia presto a scrivere, vivendo tra Algeria e Francia, sopportando la malattia in corso, quella tubercolosi che allora non era facilmente curabile. Le ricerche di Albert hanno per argomento base l’assurdo, quel “divorzio tra l’uomo e la sua vita”, con tutto quel mondo di turbamenti ed estraneità che ognuno esperimenta.
La sua biografia è piuttosto estesa: gli impegni politici (componente del Partito Comunista francese prima, algerino poi), l’adesione ai movimenti partigiani, l’impegno all’Unesco, l’attività giornalistica e teatrale, i congressi internazionali, la sua vita privata (due matrimoni), le problematiche della salute e soprattutto i suoi libri, tutti di grande successo, oltre ad un numero impressionante di saggi, pubblicazioni, relazioni. E poi, il Nobel.
Non potendo parlare di tutto, ci soffermiamo sul pensiero espresso nei romanzi, come “Lo straniero” (1942), “La peste” (1947), “La Caduta” (1956), e saggi, uno in particolare, “Il Mito di Sisifo” (1942). Saggio sull’assurdo della vita, sul non senso, e sulla salvezza che nulla ha di religioso (Camus era profondamente ateo).
La vita è semplicemente irrazionale, indipendente da noi stessi. E se l’esistenza è assurda, priva di significato, essa è paragonabile alla inutile fatica di Sisifo della mitologia greca. Sisifo, condannato dall’Olimpo ha una sola mansione: portare una pietra in cima al colle per poi lasciarla rotolare. Recuperarla ed iniziare daccapo, senza interruzione, senza fine. Senza sconti e remissione. Ci saranno giorni e notti, pioggia e sole, ma lui, Sisifo, farà solo e sempre quello. Non c’è riposo. L’eterno è in quello sforzo rinnovato. È un esempio perfetto per introdurre l’assurdo, che in qualche misura ci portiamo dentro, è nella condizione dell’uomo. Quel turbamento interiore che ci assale, quei risvolti degli accadimenti, quei sentimenti che si aggrovigliano su un perché che non avrà risposta. Dov’è allora il senso dell’esistenza? Nell’accettazione che esso non esiste. Camus, partendo dalla sconfitta, quella di Sisifo, ci mostra un percorso attuabile, l’unico possibile.
«Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello… Anch’egli giudica che tutto sia bene» e ancora «Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano da soli un mondo. Allora la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice». Sisifo rinuncia alle aspettative. Si sofferma sul qui ed ora. Non ha più un destino assegnato, non rimugina sulla condanna. La pietra è sua, la montagna è il suo mondo. Ogni passo in su, ogni riflesso di luce sui sassi che incontra, ogni ciuffo d’erba sono parte di un emisfero che è il suo. È padrone di sé, di quei passi, di quegli sforzi, dei tramonti. E quando lascia rotolare a valle la pietra è soddisfatto, contempla e le va incontro per recuperarla e pregusta una nuova salita, una nuova scommessa, un nuovo insieme di sguardi e sudore, di tensione muscolare e contemplazione. Lui, è ancora in cammino, con la consapevolezza dei propri limiti, assumendo su di sé l’idea di un proprio destino, dando un’intensità ad ogni nuovo giorno, ad ogni suo gesto. Sì, bisogna immaginare Sisifo felice.
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