“Memorie di un Imperatore”, in scena Simone Cameli. “Animula vagula, blandula…”

di SARA DI GIUSEPPE –

Autoctophonia Festival, Grottammare, Paese Alto.“Teatro Ospitale”- Casa delle Associazioni. “Il fabulatore incantevole” a cura di TeatrLaboratorium Aikot27 e Gruppo Aoidos. “Memorie di un Imperatore” di e con Simone Cameli. Riscrittura scenica da: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar –

GROTTAMMARE – Cerchiamo d’entrare nella morte ad occhi aperti… È il congedo epistolare di Publius Aelius Traianus Hadrianus, Imperator, dal giovanissimo Marco Aurelio, nipote e futuro imperatore, destinatario delle sue memorie. “Ho concepito il progetto di raccontarti la mia vita”, e nel capolavoro della Yourcenar quella lettera, iniziata per informare il giovinetto sullo stato della malattia, diventa per il sessantaduenne Adriano narrazione, confessione, memoria. Su quelle ultime parole cala stasera per noi l’ideale sipario, e una nenia profonda di melodie etniche colma di sé il buio in sala, eco di confini lontani quanto quelli dell’Impero che dominò il mondo.

È riscrittura scenica, quella del valentissimo Simone attore solista, del tutto all’altezza del maestro Di Bonaventura; dietro lo “smemoramento” del testo agisce la lezione dei grandi: la scuola di Jacques Lecoq, il magistero di Dario Fo, quello di Carmelo Bene.

E quel romanzo di portentoso lirismo che è Memorie di Adriano – poesia, storia, filosofia, saggio, meditazione  – attraverso il volto e la voce dell’attore ci prende per incantamento e ci conduce alla Tivoli assorta, ai silenzi della Villa Imperiale, dove il passato dei ricordi si intreccia per Adriano al presente della meditazione: i giorni sono contati, “sono giunto a quell’età in cui la vita è per ogni uomo una sconfitta accettata” e le rinunce fanno ormai parte del quotidiano – così la caccia, il cavalcare, il nuotare, il correre – ma ciò che è perso in azione è acquisito in conoscenza: di sé, “delle ragioni dell’esistenza, dei punti di partenza, delle origini“, meta ultima di una ricerca nella quale “trascorre una parte di ogni vita umana”.

Ecco allora i ricordi, ombre troppo lunghe del nostro breve corpo: quelli di una vita pubblica che lo ha reso Imperator e padrone del mondo, e quelli più intimi e privati, il vigore, l’entusiasmo, la forza, l’ebbrezza della felicità e l’abisso del dolore. Il cursus honorum, le conquiste militari, la designazione da parte di Traiano, la successione al governo di una Roma che non è più da tempo la “borgata pastorale dei tempi di Evandro”: crogiuolo di contraddizioni feconde, come quella fra la rusticità del suo popolo e l’incredibile esotismo dei suoi sette colli popolati da “tutte le razze del mondo”.

Ecco il Saeculum Aureum, lo splendore dell’Impero in quel II secolo di conquiste e di monumentali grandezze, quando “costruire è collaborare con la terra”, quando “ricostruire (…) significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti”. Ecco gli acquedotti nella Troade, le fortificazioni di Cartagine, i porti e le biblioteche perché “Fondare biblioteche è come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”

Humanitas, Felicitas, Libertas, sono le parole incise sulle monete del suo regno, “non ancora avvilite da applicazioni tanto ridicole”. Ed è sentirsi “responsabile della bellezza del mondo”, è aristocrazia dello spirito che lo inclina alle filosofie che hanno il sapore delle notti asiatiche e il fascino delle terre più orientali dell’Impero, è quindi l’iniziazione ai Misteri di Eleusi; ed è l’assoluta modernità di un pensiero che lo rende rigoroso con se stesso prima che con gli altri, di una visione del mondo che gli fa aborrire arroganza e sopruso, combattere il pregiudizio, legiferare in un’ottica di giustizia e generosità – “Fino ad oggi tutti i popoli sono periti per mancanza di generosità” – nella convinzione d’essere funzionario dello Stato e non Cesare.

Come oggi.

“Quando mi volgo indietro a quegli anni, mi sembra di ritrovare l’Età dell’Oro”. Poi l’amore totale, bruciante e tenero, per il greco giovinetto Antinoo di miracolosa bellezza, la vertigine di una felicità assoluta; e il silenzioso suicidio di quel dio fanciullo ombroso e schivo, i presagi ignorati “di quel raro capolavoro che fu la sua fine” (la scelta del giorno che ricorda la morte di Osiris, dio delle agonie); il dolore infinito e la memoria esaltata nella divinizzazione del fanciullo che un dio lo era già, il monumento ordinato “in riva al Tevere, presso la mia tomba”.

“Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più…”

Si è fatto portare a Baia, il tragitto è stato penoso, ma “con questo caldo di luglio (…) in riva al mare respiro meglio”. Gli amici più intimi, i fedeli servitori non trattengono la commozione… ”Fino all’ultimo istante – scrive ancora a Marco – Adriano sarà stato amato d’amore umano”.

Se è arduo per noi tornare ai feroci neon dell’Ospitale dopo esserci per due ore abbandonati al teatro, lo dobbiamo a Simone, soggetto-attore e mirabile artifex questa sera di un teatro intenso e alchemico d’impronta beniana; teatro catartico, quasi, nel quale capita di trasformare il mondo più che rappresentarlo, di “mettere in scena quel che manca nella vita quotidiana”: come l’incanto di un libro, stavolta, “che continua a insegnarci a vivere, e a morire” .

 Animula vagula, blandula,
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos…       P. Aelius Hadrianus, Imp.

(In: Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, 1951 – Trad. Lidia Storoni Mazzolani)

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