Il disco della settimana, Restoration/Revamp: The songs of Elton John

di PAOLO DE BERNARDIN –

Messe e abbondanza questa settimana per celebrare l’addio alle scene musicali (al termine della tournée programmata) di uno dei mostri sacri della canzone, quel Sir Elton John che con l’aiuto del suo fido paroliere, Bernie Taupin, ha lasciato tracce di vera grandezza nella storia della canzone del Novecento. Si tratta infatti di due  compilazioni totalmente diverse l’una dall’altra. In “Restoration” almeno 85 artisti si alternano e prestano voce del loro mondo country alla rilettura di celebri brani della coppia John/Taupin. La cosa curiosa è che nonostante la provenienza ed estrazione di ogni artista la canzoni non hanno un vero approccio country secondo i più tipici stilemi del Midwest americano per cui il risultato non è così noioso e banale come apparrebbe sulla carta. In otto, ad esempio, aprono il lavoro con “Rocket man” e altrettanti, capitanati da Miley Cyrus si cimentano in “The bitch is back” rileggendo in rock come partitura orginale comanda. Parlare di Tania Hancheroff o di Dierks Bentley, di Mike Bub o di John Randall Stewart non ha molto senso anche se qualcuno di questi brillerà di intensa luce nei vari festival campagnoli  ma la loro “Sad  song” ha un motivo di validità tra rock e blues. Affascinante è invece la versione di Hammylou Harris e Rosanne Cash di “This train don’t stop there anymore” da “Songs from the West Coast” del 2001. Portentosa è la versione affidate alla voce del grande Willie Nelson in “Border song” come pure “Mona Lisa and Mad Hatters” di Maren Morris e la notevolissima “Sacrifice” con Don Henley, Vince Gibb e Robben Ford. La famiglia Osborne si occupa del rock un pò scontato di “Take me to the pilot” subito bilanciata dalla bellissima “My father’s gun” (uno dei capolavori del primo Elton) eseguita da Miranda Lambert cui risponde Chris Stapleton con “I want love”. Lee Ann Womack fa suo il rock’n’roll di “Honky cat” mentre senza infamia e senza lode è la versione di “Roy Rogers” di Kacey Musgraves e per celebrare il vero country entra, in chiusura Dolly Parton, la regina che con Rhonda Vincent chiude con una banale “Please” tra banjo, violini e coretti country western.
La vera sorpresa invece arriva da “Revamp” che parte malissimo con lo stesso Elton John che a fianco di Pink e Logic cerca di rappare un rock abbastanza insulso in “Bennie and the Jets” ma si riprende con una stupenda versione di “We all fall in love sometimes” (da “Captain Fantastic and the brown dirty cowboy” del 1975) ad opera dei Coldplay che rimandano alla magica versione di Jeff Buckley. Alessia Cara ci offre poi una dignitosa di “I gues that’s why they call it the blues” da “Too low for zero” del 1983. Piena di magia è invece la nuova versione di “Candle in the wind” eseguita dalla superstar Ed Sheeran che non manca di soddisfare i suoi fans. Ancora tra i brani del primo John viene ripescata la splendida “Tiny dancer” cantata per l’occasione dall’ottima Florence and the Machine. Non si lasciano scavalcare però nemmeno gli eccellenti Mumford and Sons che scelgono “Someone saved my life tonight” anch’esso da “Captain Fantastic”. Al repertorio black, un po’ scontato secondo i dettami moderni del genere in caduta libera, viene affidato “Sorry seems to be the hardest word” per la voce di Mary J. Blige notevolmente sottotono. IL pop rock banaluccio di Demi Lovato lancia senza infamia e senza lode “Dont go breaking my heart” mentre ci pensano i grandi Killers a trasformare “Mona Lisa and Mad Hatters” e la gran bella voce di Sam Smith e far sua una bella versione di “Daniel”. A rompere le uova nel paniere ci pensa subito la gallinella Miley Cyrus che non può che slo rovinare “Dont let the sun go down on me”. Una della più belle canzoni di Elton, “Your song” viene affidata alla bella voce (specie quando non esegue il suo repertorio) di Lady Gaga che ce la mette tutta mentre la chiusura di “Goodbye yellow brick road”, stranamente ma non malamente, viene eseguita da un gruppo rock come Queens of the Stone Age. Insomma una carriera cinquantennale attraversata da 400 milioni di dischi venduti non poteva avere una celebrazione migliore per Reginald Kenneth Dwight, in arte Elton John.

STANDARD
(La storia delle canzoni)

The shadow of your smile (Webster-Mandel), 1965

“L’ombra  del  tuo sorriso quando sei andata via  farà di tutti i miei sogni un colore per illuminare l’alba.  Guarda nei miei occhi amore mio, e vedi tutte le cose amorevoli che tu sei per me La nostra piccola,  piccola stella era troppo alta  Una lacrima scende baciandoti le labbra e cosi ho fatto. Ora quando ricordo la primavera. Tutta la gioia che quell’amore può portare la ricorderò”

Quando la storia di un beccaccino dall’ala ferita entra in casa e lentamente con le cure di chi si occupa di lui riesce a guarire fino a riprendere il volo e andarsene libero diventa metafora di un personaggio che non accetta legami per molti versi e anela totalmente alla libertà. Tutto questo  è la storia melodrammatica di “The sandpiper”, (“Castelli di sabbia”), film del 1965 con la magnifica regia di Vincente Minnelli e la sceneggiatura, tra gli altri di Dalton Trumbo (“Vacanze romane”, “Exodus”, “Spartacus”) ed interpreti di grido come Elizabeth Taylor, pittrice e spirito libero  madre illegittima di una bambina di 9 anni, che si innamora di un vescovo episcopale direttore di un collegio californiano, Richard Burton già sposato  con  Eve Marie Saint. Girato nello splendore delle spiagge di Big Sur in California (Point Lobos e San Dimas) il film è la lotta continua di due innamorati lontani per le proprio convinzioni morali. Alla domanda del vescovo a Laura, la protagonista, “In fin dei conti vorrei sapere cosa tu voglia esattamente nella vita” lei risponde “A parte far crescere mi figlia nel migliore dei modi la cosa che più mi interessa è conoscere me stessa ed essere me stessa. Il gioco del matrimonio non mi permetterebbe tutto questo per si tratta di un gioco truccato da prima che nascessi” Teologia e triangolo amoroso non aiutarono certo a far sollevare il film da certa banalità e  ironia della sorte voleva che il terzo film della storica coppia Liz-Burton fosse in realtà il primo da veri sposati. A risollevare le sorti, oltre alle spiagge mozzafiato della California ci fu però un tema musicale composto da Johnny  Mandel (New York, 1925) sul quale Paul Francis Webster, già autore e premio Oscar per “Secret love” (1953) e “L’amore è una cosa meravigliosa” (1955) aggiunse un bel testo che vinse anch’esso l’Oscar nel 1965 e nella sua carrierà portò a casa ben13 altre nominations. Dopo aver studiato alla Juilliard School Mandel suonò la tromba con Joe Venuti e il trombone nell’orchestra di Jimmy Dorsey e Buddy Rich, di George Auld e Chubby Jackson fino ad entrare nell’orchestra di Count  Basie e Zoot Sims,dopo aver accompagnato per anni la brava cantante June Christy. Compose inoltre per Woody Herman, Stan Getz, Count Basie e Chet Baker. Prima dello splendido tema della serie M.A.S.H., “Suicide is painless” di Robert  Altman (1970) fece il colpo grosso con “The shadow of your smile” proprio da “Castelli di sabbia” vincitrice dell’Oscar e del Grammy Award come canzone dell’anno. Nella sua ricca e lunga carriera compose musica per una quarantina di film ed incise anche una decina di dischi lavorando con i più grandi artisti americani (Barbra Streisand, Tony Bennett, Shirley  Horn,  Diana Krall, Quincy Jones, Manhattan Transfer, Hoagy Carmichael e Frank Sinatra).  E quella canzone fece davvero gola a tutti con oltre 300 versioni  (una cifra per difetto) in ogni lingua e in ogni genere ad iniziare dal jazz (Harry James, Ron Carter, George Benson, Dexter Gordon, Kenny G, Bill Evans, Toots Thielemans, Gerry Mulligan, Al Martino, Barney Kessel, Erroll Garner, Dave Koz, Herb Alpert, Eddie Harris, Kenny Dorham, Joe Pass, Wes Montgomery, Jack Jones, Oscar Peterson, Scott Hamilton, Bill Frisell, George Shearing, Singers Unlimited, Chris Botti, Benny Goodman, Charlie Mariano, Eric Alexander, Lee Konitz, Art Pepper, Oliver Nelson, Ethel Smith, Lou Donaldson, Sadao Watanabe, Rosemberg Trio, Eddie Harris, Art Farmer, Hank Jones, Boots Randolph, Sonny Stitt, Cedar Walton, Earl Klugh, oltre ai nostri Fabrizio Bosso (da solo e con Sergio Cammariere e Javier Girotto). Fausto Papetti, Gil Ventura. In italia venne cantata anche, con testo di Mogol, da Carla Boni, Johnny Dorelli, Emilio Pericoli e Mina (ma in originale nel 1968 e anche in duetto con Dorelli) e Roberta Gambarini, Tra le voci la canzone entrò nel repertorio della lirica con Sergio Franchi, Kiri Te Kanawa, Josè Carreras, Placido Domingo mentre tra gli interpreti “leggeri” non possiamo non citare Frank Sinatra, Tom Jones, Dean Martin, Blossom Dearie, Johnny Hartman, Bobby Darin, Connie Francis, Rosemary Clooney, Ray Anthony, Perry Como, Carmen Mcrae, Paul Anka, Shirley Bassey, Ella Fitzgerald, Barbra Streisand, Andy Williams, Tony Bennett, Nancy Sinatra, Peggy Lee, Hengelbert Humperdink, Lou Rawls, Sarah Vaughan, Vic Damone, Nat King Cole, Nancy Wilson, Esther Phillips.  Sul versante più esotico ci furono Trini Lopez, Josè Feliciano, Baden Powell, Ana Caram, Dory Caymmi, Astrud Gilberto, Arthur Lyman, Tommy McCook in salsa cuban ska reggae, Nancy Ames, Zamfir, celebre flauto di Pan della Romania. Approfittarono anche i divi del rhythm’n’blues ad eseguirla (Michael Jackson, The Supremes, Johnny Mathis, Marvin Gaye, Stevie Wonder, Vincent Bell, Brother Jack McDuff, Pieces of a dream, Aaron Neville, D Train) e addirittura celebri attrici come Diane Keaton, Grace Kelly e Marilyn Monroe. E per finire tra le star del rock anche Glen Frey e Marc Almond.

Copyright©2018 Il Graffio, riproduzione riservata