Il disco della settimana, Calexico – The thread that keeps us

di PAOLO DE BERNARDIN –

Da qualche anno a questa parte i Calexico, celebre band americana dell’Arizona guidata da John Convertino e Joey Burns e con oltre 20 anni di attività, riesce a spiazzare il suo pubblico. Dal precedente “Edge of the sun” nel quale la superba voce di Convertino era filtrata da vocoder a questo odierno “The thread that keeps us”, nono album della loro carriera nel quale il suono diventa quasi irriconoscibile. Laddove c’era un suono di frontiera confinante col Messico qui è il rock che torna predominante scegliendo una valenza di furore e protesta. Infatti sin dal titolo del disco il senso di angoscia e di minaccia prende il sopravvento. “Quel filo che ci tiene sospesi” non è altro che la fotografia del mondo attuale in cui le storie degli uomini di confrontano necessariamente con le scelte politiche e mettono in guardia tutti sulle possibilità di un disastro imminente che solo un linguaggio musicale più simile a Neil Young, U2 strizzata d’occhio ai Clash sandinisti in “Under the wheels” o Wilko riesce a rendere in  musica. É un disco essenzialmente politico con protagonisti gli stessi diseredati delle immagini dell’America di Trump (potente è “Dead in the water”) e, in senso lato, del resto del mondo attraversato da emigrazioni e disperazione. É una sorta di voce altissima di protesta per correre in qualche modo ai ripari. I titoli dei brani infatti rimandano alla fine del mondo e alle voci degli ultimi e più umili, protagonisti di fughe e di attraversamenti di ponti che conducono verso il nulla. Sono spesso immagini apocalittiche sottolineate dalla grande forza del rock di un gruppo sempre all’altezza della sua storia, incapace di adagiarsi sugli allori e che continua imperterrito a denunciare le storture del mondo. Non mancano musicalmente accenni al passato del gruppo come nell’originale “Flores y tamales” cantata in spagnolo da Jairo Zavala e sottolineata da suoni mariachi di vecchio stampo e dalla tromba davisiana di Jacob Valenzuola, le stesse atmosfere che si possono riascoltare bell’edizione deluxe del lavoro nella quale sono aggiunti ben 7 brani che restituiscono i classici Calexico al suo pubblico. Il passato ritorna anche nella affascinante “The town & Miss Lorraine” in stile sixties mentre si denunciano disastri ecologici sottolineanti, a mo’ di sirene da lancinanti suoni di tromba smorzati dalla successiva “Unconditional waltz”, una sorta di accompagnamento estremo di un funerale di civiltà.

STANDARD
(La storia delle canzoni)

Wild is the wind (Washington-Tiomkin) 1957

“Mi tocchi, sento il suono dei mandolini. Mi baci. Con il tuo bacio inizia la mia vita. Sei la primavera per me, sei tutto per me. Non lo sai, sei la vita stessa! Come le foglie si stringono agli alberi. Oh, amore mio, stringiti a me. Perché siamo come creature nel vento, e folle è il vento. Folle è il vento”

3 novembre 1969. Nina Simone dava un concerto a Roma, al Sistina. Il teatro era semideserto. Anna Magnani era presente e guardava con ansia tutti quei posti vuoti, si voltava ripetutamente verso l’ ingresso, sperando che all’ ultimo momento una folla di gente sarebbe entrata. Nina Simone, regale, entrò in palcoscenico. Guardò il teatro vuoto. Senza fare alcuno sforzo per nascondere la sua ira, apostrofò l’ imbarazzato pubblico: «Ringrazio i pochi di voi che sono venuti qui stasera. Ignoravo che Roma trattasse così gli artisti. Voglio che sappiate che, se mai tornassi a Roma, lo farei solo dopo che ogni singolo posto sia stato venduto». Gli spettatori non sapevano assolutamente come comportarsi. Ma la Magnani lo sapeva. Si alzò in piedi di scatto. «Hai ragione, Nina» gridò. «Vergogna, vergogna, vergogna!» esclamò, scuotendo il pugno. Poi, agli spettatori: «Facciamo un applauso a questa grande artista, come se in ognuno di noi ci fossero dieci persone!». (da “Hollywood sul Tevere” di Hank Kaufman e Gene Lerner, 1982). Un curioso episodio che lascia intendere l’amicizia che c’era tra Anna Magnani e la grande sacerdotessa del soul, Nina Simone. La stima per la Magnani era immensa da parte della Simone e tutto era nato da “Selvaggio è il vento” (Wild is the wind), il film del 1958 di George Cukor con Anna Magnani e Anthony Quinn, entrambi candidati all’Oscar la cui musica, anch’essa candidata al premio, fu composta da Dimitri Tiomkin (Kremenchuk, Ukraina, 1894-Londra, 1979), premio Oscar per “Mezzogiorno di fuoco” (1952) di Stanley Kramer, “Prigionieri del cielo” (1954) di William Wellman, “Il vecchio e il mare” di John Sturges (1958) oltre ad altre 14 candidature in carriera. “Wild id the wind”, tema portnate del film fu affidata nella colonna sonora alla voce calda di Johnny Mathis con testo originale di Ned Washington ed entrò immediatamente anche nel repertorio di Nina Simone (la incise ben due volte in carriera) che ne fece una versione memorabile come testimonia il celebre concerto dalla Town Hall del 1959. Anche in Italia con testo di Nino Rastelli e orchestra di Pino Calvi fu Jula de Palma ad inciderla nel 1958 e qualche anno dopo, nel 1963, Mario Pezzotta ne fece una mirabile versione. Negli anni Sessanta fu incisa da due alte grandi voci del jazz come le sofisticate Nancy Wilson e Patti Waters e Shirley Horn, la quale reincise un’altra magica versione nell’album “Here’s to life” del 1992. “Wild is the wind” divenne titolo comune nel jazz vocale e strumentale: da Connie Stevens a Ray Bryant, J.J.Johnson, Max Roach, Kenny Burrell, Ahmad Jahmal, Helen Merrill, Shirley Bassey,Gloria Lynne, Fred Hersch ed altri. A rispolverarla in chiave soul bianco pensò David Bowie nell’album “Station to station” del 1976 con una versione che ha rilanciato la canzone anche in ambito rock e soul. Infatti fu ripresa magnificamente da belle e grandi voci come Billy McKenzie degli Associates, Bon Jovi, Caroline Henderson, Barbra Streisand, Randy Crawford, Kellylee Evans, Peter Schneider, i Clan of Ximox, Bernard Fowler, Swann, Bat for Lashes, George Micheal, Cat Power, i nostri Morgan e Andrea Chimenti, Laureen Hill, Greg Osby, Esperanza Spalding, Jeff Buckley (con una versione toccante e commovente) per giungere fino a pochi mesi fa con le voci mirabili di Malia, la sofisticatissima interprete del Malawi, di un gigantesco Dwight Trible e dell’immarcescibile Patti Labelle nel suo recente capolavoro jazz “Bel hommage”.