Centro Commerciale, l’antropologia urbana passa per quelle panche

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Talvolta è utile fare un giro per il centro commerciale, non per curiosare tra scaffali e totem pubblicitari, piuttosto per uno sguardo a chi l’abita nell’orario di apertura. La prima annotazione va alla ripartizione in zone: al piano terra, nelle panche vicino all’entrata, gli anziani. Al primo piano, zona Wi-Fi gratuito, extracomunitari e persone dall’aspetto dimesso, ognuno comodamente seduto e il capo chino sullo smartphone. Stesso piano, un po’ più distanti, consumatori di colazioni ed aperitivi, rilassati e disponibili ad amabili conversazioni sul più e sul meno.

La seconda annotazione, verificata in osservazioni successive, è che mentre al piano superiore le persone si rinnovano ciclicamente, in modo occasionale  e in ordine sparso, nel piano terra sono sempre gli stessi uomini (le donne avranno altro da fare) che si parcheggiano nelle medesime posizioni, salvo piccoli spostamenti. L’antropologia urbana passa per quelle panche.

La terza annotazione è sul perché. Le sedute del piano terra, vicine agli ingressi, consentono la massima varietà visiva. Non ci si annoia e non ci si stanca. Un via vai continuo, ad affogare gli occhi tra gambe e borse, cagnolini al guinzaglio, comportamenti umani e sguardi che si incrociano, sorrisi abbozzati e volti tirati, passi veloci e trafelati ed altri più rilassati e ballerini tra le vetrine interne, a sbirciare una scusa per entrare. Una scusa per giustificare la curiosità e ritardare altri impegni.

Si, l’anziano appostato esercita il ruolo inconsapevole dello scrutatore dei generi. Potrebbe essere un bel gioco, potrebbe essere un bel modo di combinare il passatempo con l’esercizio intellettuale. Potrebbe essere, ma non lo è. In realtà lo sguardo è assente, la testa si gira meccanicamente, quel tanto che basta per seguire l’ultimo entrato che sia avvia all’interno dell’ipermercato. Su quella panca non s’avverte neanche il cambio delle stagioni, se non per quelle belle gambe nude di ragazze dagli abiti minimal nella stagione estiva. Un guizzo negli occhi colora il volto, ma è un attimo, poco più di un secondo, poi l’apparente gloria dei sensi tramuta subito in mestizia. L’uomo dimentica se stesso, scivola nella solitudine intellettuale, permane in uno stato di assenza. Il volto diventa inespressivo, gli occhi non guardano più, si fermano in basso in attesa di un nuovo arrivo. Tutto si ripete, tutto è inutile, perde di senso.

Guardo, annoto e penso. Penso al mio cagnolino dell’infanzia. Vicino alla sua cuccia, si comportava allo stesso modo. L’accostamento non è irriverente, è tristezza viva che invade la ragione. Quell’uomo avrà avuto infinite possibilità, come tutti. E’ passato attraverso le fasi della vita, ha giocato con gli amici, è cresciuto, ha lavorato e portato avanti sogni e desideri, progetti concreti ed idee fantasiose. Ha sicuramente amato, si è divertito, ha pianto e riso. Ha rincorso la vita, con vittorie e sconfitte. Ed è arrivato alla pensione. Ed ha scoperto il centro commerciale, dimenticando che è ancora vivo. Trascina il tempo, supera la giornata. Perché? Sono tentato dalle congetture. La prima cosa che mi viene in mente è che è la conseguenza dell’aver rivestito ruoli più che essere stato se stesso per davvero. Come un attore mediocre nei panni del personaggio. Quando gli viene tolto ne cerca un altro. Vive di luce riflessa, non scopre la propria, non la vede. Ma  non ha senso fare congetture: non so nulla della sua vita. Non è corretto.

Esco da quell’agglomerato che dovrebbe rappresentare la modernità, il simbolo dell’organizzazione sociale e che diventa la rappresentazione della solitudine tra la gente. Vite che si incrociano e non si intrecciano, vitalità che si devitalizzano ed energie che si spengono, come le luci alle ore 21,30 quando gli addetti alla vigilanza controllano che tutti siano usciti e chiudono le saracinesche fino all’indomani.
Con il nuovo giorno, tutto si ripeterà, senza l’illusione di una novità.