Tragedia del Pinguino, il ricordo del giornalista Alberto Angelucci

di REDAZIONE –

SAN BENEDETTO DEL TRONTO –  Nella ricorrenza della sciagura del Pinguino, pubblichiamo un pezzo scritto dal giornalista Alberto Angelucci di Pesaro che ricorda la sua esperienza di corrispondente Ansa che seguì la vicenda del naufragio del m/p Pinguino, o meglio la sua venuta a San Benedetto nel momento immediatamente successivo alla tragedia.«Non è né un racconto, né un articolo – dice Angelucci – è solo un frammento di memoria di tanti anni fa» –

Il vecchio giornalista, ancora vispo, sfogliava il volume rilegato con tutti i numeri della “Domenica del Corriere” del 1966 conservati alla Biblioteca Oliveriana. Gli archivi sono una cosa morta e noiosa per i giovani; per gli anziani sono le stanze di un tempio, una miniera d’oro, un caveau di pietre preziose. L’uomo sfogliava le pagine del settimanale: le copertine con le straordinarie tavole illustrate di Walter Molino, belle come quadri d’autore e assai più vere dei servizi fotografici di “Life”; gli articoli che avevano divertito o commosso le famiglie italiane in quegli anni; le foto a colori e in bianco e nero; la pubblicità di quel dentifricio; le rubriche, il cruciverba, la pagina delle barzellette… Camminava sulle pagine della sua vita con cautela e rispetto.

Arrivò al fascicolo dell’inizio di marzo di quell’anno. Il “Pinguino”, un grosso peschereccio oceanico di San Benedetto del Tronto, era naufragato nell’Oceano Atlantico, al largo della Mauritania (Africa occidentale), nella notte tra il 19 e il 20 febbraio: uccidendo i tredici uomini dell’equipaggio. Quasi tutti erano sprofondati nell’abisso insieme ai loro sogni, mentre dormivano sottocoperta; ma anche i due marinai di guardia non avevano avuto scampo. Il relitto fu poi ritrovato: galleggiava in posizione verticale, con la prua verso l’alto. La collisione con uno scoglio? Un’esplosione? Lo speronamento di una nave pirata? L’inchiesta non lo ha mai appurato.

La mattina del 21 febbraio mi chiamò al telefono l’ufficio di Bologna dell’Agenzia Ansa: «E’ naufragato in Africa un peschereccio italiano, pare che siano tutti morti. Vai subito a San Benedetto e mandaci un pezzo di 60 righe entro stasera: dichiarazioni della Capitaneria, interviste ai parenti delle vittime, reazioni della gente, quelle cose lì. Ciao.». Ero allora un giovane laureando in Legge che cercava di diventare un giornalista. Già da qualche anno collaboravo qua e là con le testate locali e con un quotidiano sportivo: adesso anche con l’Ansa, ma senza troppe speranze di un’assunzione. Probabilmente ci sarebbero voluti ancora anni di “abusivato”, come veniva chiamato allora il lavoro precario nei giornali prima che arrivasse l’atteso contratto del “praticantato” biennale. Scesi dal “Rapido” alla stazione della cittadina adriatica, al confine con l’Abruzzo, nelle prime ore di un pomeriggio scuro.

San Benedetto del Tronto era già allora una splendida località balneare di 30 mila abitanti lungo la Riviera delle Palme, con una spiaggia di sabbia bianca di nove chilometri e un lungomare costeggiato da piste ciclabili, giardini tematici (le rose, gli agrumi, le piante officinali), opere d’arte e ville in stile Liberty. Il suo porto commerciale ospitava una delle flotte di pescherecci più grandi del Paese, che costituiva la principale risorsa economica del territorio. Ma quel giorno San Benedetto non era più bella: piangeva ancora una volta, sotto il cielo grigio di febbraio, i suoi nuovi caduti per lavorare.

I giornalisti stavano già calando verso il sud, richiamati da una ghiotta storia di lacrime. Alla stazione mi attendeva il corrispondente locale dell’Ansa, amico di famiglia di Alberto Palestini, il comandante del “Pinguino”: 50 anni, una lunga esperienza di navigazione, padre di quattro figli. Mi fece strada verso l’abitazione della vittima a poche centinaia di metri: un appartamento semplice e decoroso, al primo piano di un edificio di nuova costruzione, tutto affrescato di bianco. Era già lì Vittorio Lojacono, un collega (vero), inviato della “Domenica del Corriere”. Io avevo ancora un po’ di pudore nell’avvicinarmi al dolore degli altri, ma allora i giornalisti di cronaca nera saccheggiavano ovunque senza ritegno le foto dagli album di famiglia dei parenti in lutto, perché i lettori vogliono vedere le facce dei morti; e i capi si sarebbero lamentati non poco se fossero tornati senza immagini. Da parte sua Lojacono si limitava a fotografare dall’alto, con la sua Leica, le foto in bianco e nero dei giorni felici, custodite nel cassetto del comò: chiedendo solo cortesemente qualche spiegazione per le future didascalie. Alle pareti erano appesi alcuni piccoli quadri a olio di buona fattura, con vedute di marine, di conchiglie e di paesaggi. Qualcuno ci disse che erano stati dipinti dall’ultima figlia: una bambina di una decina d’anni che stava piangendo disperatamente da sola, abbandonata su una sedia. Arrivò in visita anche il vescovo della diocesi di Ascoli Piceno, per portare un po’ di conforto a quella povera famiglia.

Nella cucina-tinello la moglie Dora aveva sul volto una certa espressione di nobiltà: tipica anche delle persone più umili, di fronte ai grandi momenti di dolore e di gioia. Conteneva dignitosamente la sua angoscia di fronte a tutti quegli estranei in casa, venuti a frugare nei suoi ricordi di donna: col suo uomo inghiottito dall’oceano insieme alla barca a 3000 chilometri da casa sua, che non avrebbe mai potuto piangere su una tomba. Era già successo a tanti, tra i duemila pescatori di San Benedetto: sepolti senza bara e senza fiori nel grande cimitero del mare. Fra i visitatori c‘era un marinaio alto e asciutto, sui quarantacinque anni, che conosceva bene tutti i pescatori scomparsi in quel naufragio e anche altri che non erano più tornati negli ultimi vent’anni. Andava ogni tanto a salutare la lapide con i nomi dei caduti, murata su un molo del porto: per dedicare un pensiero a quei compagni e a quelli che sarebbero purtroppo seguiti nei prossimi anni. Mi diceva, mormorando appena, come se parlasse a sé stesso: «Quando finisci in acqua, se hai più di diciotto o vent’anni non ce la fai a salvarti».

Il pomeriggio si allungava verso la sera e Dora chiese a qualcuno dove stava la “fersòra” (la padella, nel dialetto del vicino Abruzzo) perché bisognava pur sempre dare qualcosa da mangiare ai ragazzi per cena. La bambina continuava a piangere da sola, ma si rese conto che, tra i visitatori, c’erano in casa dei giornalisti: forse potevano darle un piccolo momento di gloria, forse un futuro migliore… «I quadri!» cominciò a esclamare tra i singhiozzi, per richiamare la loro attenzione «I quadri…!.».

Ho trasmesso il mio pezzo all’Ansa, evocando all’inizio altre tragedie del lavoro italiano nel mondo: come Marcinelle, dieci anni prima, quando il Belgio ci dava tonnellate di carbone in cambio dei nostri minatori. Poi ho ripreso in serata il treno verso il nord. In fondo era solo una piccola storia di cronaca, quasi ordinaria amministrazione. Rivedevo mentalmente le foto dell’album di famiglia, il sorriso del papà, una prima comunione, i marinai allegri che brindavano ridendo sul ponte del grande peschereccio di quaranta metri: ampio come la loro casa. Il servizio di Lojacono sulla “Domenica del Corriere”, qualche giorno dopo, sarebbe stato sicuramente più bello: con le interviste, le foto, le testimonianze, le cartine dell’Africa. Qualcuno dei viaggiatori sul mio treno avrebbe letto l’articolo e avrebbe scosso la testa con rassegnata indifferenza. Domenica mattina, a San Benedetto, ci sarebbe stato il sole, con le famiglie a passeggio sul lungomare, scherzando con i bambini. Forse anch’io qualche volta, ordinando al ristorante il “Brodetto dell’Adriatico”, avrei ripensato a quella gente. Forse.

In quel tempo, salito Gesù sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco, avvenne nel mare un grande sconvolgimento, tanto che la barca era coperta dalle onde; ma egli dormiva. Allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?». Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia. Tutti, pieni di stupore, dicevano: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?». Anche i marinai di San Benedetto erano belli come i pescatori con la barba nelle illustrazioni del Vangelo. Ma quella notte non avevano avuto nemmeno il tempo di aver paura.

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