John Fante e gli incredibili rifiuti nel mondo editoriale

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Una certa narrativa americana del ‘900 non sempre piace a qualche purista del lessico. La sintassi ha le sue regole e “giocarci” può comportare un piacere in chi scrive e un che di fastidioso in coloro che sono abituati a sedere nella comfort zone della perfezione linguistica. Ma una cosa è prendersi delle libertà stilistiche per involontaria ignoranza, altra è farlo per necessità espressiva. Prendete John Fante, ad esempio. Leggete libri come “Chiedi alla polvere”, per citare uno dei suoi più famosi, o uno qualsiasi degli altri incentrati su Arturo Bandini, e poi ditemi cosa potreste modificare per esprimere meglio quel pathos, certe disarmonie, propensioni, scelleratezze dello spirito e genialità sospinte su e giù per le scale dell’esistere. Sembra di star sul set cinematografico e altro modo non c’è. O, per meglio dire, ci sono infiniti modi ma sarebbero altri libri.  Viene da fare un parallelo con le opere d’arte. Credo che oggi nessuno sosterrebbe che l’unica pittura valida sia quella rinascimentale, tacendo impressionismo, cubismo, astrattismo, e via dicendo, tacciandoli come espressione immatura e approssimata o “improponibili” al pubblico. Eppure, il termine improponibile è stato utilizzato per rifiutare testi che, successivamente, sono diventati dei capisaldi, fari della letteratura, oltre le tendenze, nuovi paradigmi della scrittura.

Tornando a Fante, il suo primo romanzo, “La strada per Los Angeles”, non venne mai pubblicato in vita. Oltre a lui, si son visti rifiutare la pubblicazione intellettuali del peso di Hemingway, Orwell, Melville, Stephen King, Marquez. E molti, molti altri. Con motivazioni diverse, che potevano essere di marketing o sociopolitiche, o addirittura vere e proprie bocciature sulla qualità, ma tant’è che il termine “improponibile” è stato usato spesso.
Vennero rifiutati “La fattoria degli animali” di Orwell, “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Gli indifferenti” di Moravia. Incontrò ostacoli Primo Levi per il suo classico “Se questo è un uomo”. A Ernest Hemingway venne scartato “Fiesta”. Sembra impossibile da credere, ma anche “Moby Dick” di Melville incontrò resistenze. Il “Diario” di Anna Frank? Rifiutato da una quindicina di editori.

Un editor definì “La spia che venne dal freddo” di John Le Carré come un libro senza futuro. Anche quel gigante delle vendite che è Stephen King incontrò un’infinità di negazioni prima che venisse pubblicato il suo primo libro: “Carrie”. Non andò meglio a Marcel Proust per il suo capolavoro assoluto “Alla ricerca del tempo perduto”, né a David Herbert Lawrence con “Lady Chatterley”. Robert Pirsig vendette 5 milioni di copie con “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” dopo che editori, editor e agenzie varie lo avevano stroncato senza appello. Un altro classico, “Gente di Dublino” di James Joyce dovette subire l’onta di oltre 20 rifiuti. Se pensiamo alla saga di Harry Potter e all’enorme successo che continua ad ottenere, non verrebbe mai in mente che J.K. Rowling, la scrittrice di “Harry Potter e la pietra filosofale”, incontrò resistenze e negazioni. Eppure accadde. Così come sembrerebbe impossibile che anche il nostro Andrea Camilleri venisse accantonato nel settore dei rifiutati. Ebbene sì, il suo primo romanzo non trovò nessuno disposto alla pubblicazione. Impiegò una decina d’anni prima di riuscirci.

Non sono pochi esempi, eppure l’elenco reale è molto più lungo. Allora vien da chiedersi come sia possibile che persone di talento, editori e editor, che immaginiamo abbiano una lunga e larga visione, possano commettere errori così apparentemente inspiegabili. Certo, di caso in caso andrebbero visti i momenti storici, le opportunità del momento, le “tendenze”, le scelte personali. Rimane che ci sono stati abbagli colossali da parte di chi dovrebbe avere uno sguardo sul futuro e saper osare. Valutare un libro non è esattamente correggere un compito in classe. Se da un lato è vero che molti dei manoscritti che arrivano sui tavoli di chi deve fare delle scelte non superano i requisiti minimi, dall’altro probabilmente è anche vero che non tutti gli osservatori hanno la pazienza di capire l’essenza e lo spirito intimo prima ancora di giudicare struttura e stile, che restano importanti, ovviamente, ma fortemente interconnesse con la sostanza. Un equilibrio delicato e difficile. Saperlo riconoscere e saper lavorare sull’insieme è la vera missione di chi valuta, in un mondo altrettanto delicato e difficile che è quello della capacità espressiva e comunicativa.

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