San Benedetto e la guerra al Coronavirus, nemico silenzioso e invisibile

di TONINO ARMATA

Dopo tre settimane di isolamento in casa, ho un segreto: la scrittura come musica, lo stile di usare parole che possano solo migliorare il silenzio

È il primo conflitto della nostra epoca – molti ormai dicono guerra – in cui il pianeta combatte con un nemico comune, silenzioso e invisibile. È la fantascienza nella globalizzazione. Il nemico è un “microrganismo acellulare”, come lo chiamano i dizionari, visibile soltanto al microscopio. Ci spaventa, ci nevrotizza senza mostrarsi. Ma è ben presente perché uccide puntuale ogni giorno. Non si sa fino a quando. Per ora è invulnerabile, è sfuggito al controllo biologico. La caccia al killer in libertà, inafferrabile, è condotta da un esercito di ricercatori nei laboratori: lì è in corso quella che in molti hanno chiamato “guerra”. I combattenti di questa guerra sono anche i medici, gli infermieri, gli ambulanzieri, chi è occupato negli ospedali, rischiando la vita. Anche noi la rischiamo se non fuggiamo, se non sfuggissimo al nemico, nascondendoci, evitando ogni contatto con lui. È il nostro ruolo: non farci acciuffare. Non farsi contagiare per non contagiare. La scienza e la tecnica apparivano trionfanti nel ventunesimo secolo, ed ecco che un virus costringe gli esseri umani a chiudersi nelle loro case, se ne hanno una.

Chi ha vissuto il secolo scorso, seguendo in varie vesti i tanti conflitti che l’hanno agitato, in questa occasione si scopre spiazzato. Vale a dire azzittito come la città di San Benedetto del Tronto in cui abito da quarant’anni. Se mi affaccio alla finestra, guardando via Romagna, dove si trova la mutua, mi investe un silenzio che sento sulla pelle. Il microrganismo acellulare, che vaga tra noi come un killer inafferrabile e invisibile, azzittisce la città, di solito chiassosa di notte. Le palme del bellissimo lungomare sono sole, perché non ci sono turisti che le guardano incantati, scattando fotografie. I ristoranti sono chiusi, come i cinema e i teatri. Il molo, come le spiagge, sono deserte. Ma non è la quiete della città che dorme. Il buio è impregnato d’ansia. Ogni tanto passa un’automobile e spunta qua e là qualche passante solitario. Il consumismo ha abbassato le saracinesche. Ci sono meno clienti. Larga parte degli abitanti consumatori sono spariti. Sull’altro versante della città, la Torre dei Gualtieri, sembra un monumento solenne e abbandonato.

L’informatica in tutte le sue forme consente ai diversi poteri di comunicare senza incontrarsi. Le società ad alta tecnologia possono funzionare restando chiuse in casa. Per quanto tempo? C’è poi l’aspetto tragico: i morti, i malati. Anche di solitudine. La guerra non ha nulla di simile a quelle del passato. Non assomiglia neppure alle epidemie di un tempo. Mio nonno, soldato durante la Grande Guerra, mi ha raccontato la “spagnola” che nel 1918-19 ha fatto milioni di morti. Uscito dalla trincea è finito in un lazzaretto dove si lavava le mani nella calce e contava i morti. È stato uno sterminio, assai più ampio e micidiale di quello che stiamo vivendo. Ma non era ancora l’epoca dell’informazione, della comunicazione con le cifre che rimbalzano sugli schermi dei computer e dei televisori, che ci investono e trasmettono in diretta una minaccia più limitata, ma più visibile delle precedenti. Più aggressiva. Da qui il paradosso: gli avanzati strumenti del progresso ci fanno vivere l’epidemia ora per ora. La “spagnola” di un secolo fa ha ucciso decine di milioni di uomini e donne, ma i morti di questi giorni li sentiamo più vicini. Li vediamo anche nel chiuso delle nostre case rifugio.

Appartengo alla popolazione anziana. Più che anziana. Sono una foglia che il vento, un semplice soffio, può staccare in qualsiasi momento dall’albero. È giusto, indispensabile che sia così. I giovani resistono meglio al virus. Non sono indeboliti da altri malanni. Fino a pochi giorni fa nei giardini, prima che venissero chiusi, gruppi di ragazzi giocavano infischiandosene degli inviti, degli ordini a restare in casa, a non muoversi a contatto col prossimo. Un killer arrivato da una sconosciuta città della Cina ha annullato i riti collettivi, anche i più innocenti. Nell’era della mondializzazione, l’epidemia ha dato un senso infelice, ingrato all’espressione tanto estensiva. Da una città cinese dinamica, ma quasi sconosciuta, il virus si è messo per strada, ha fatto migliaia di chilometri, ha preso navi e aerei, è passato con la saliva, con il fiato, di bocca in bocca, ed è arrivato fino a noi. Facendoci fare chissà quanto tempo a ritroso, anche quando sarà scomparso.

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