“Il Jazz è quel che resta da fare”… o da ascoltare

di PGC (PIER GIORGIO CAMAIONI) –

Jerome Sabbagh & Greg Tuohey quartet / NO FILTER
Jerome Sabbagh/tenor saxophone   Greg Tuohey/guitar   Joe Martin/bass   Kush Abadey/drums – Cotton Lab, Ascoli Piceno, 14 febbraio 2020  h 21.45

Il Jazz è quel che resta da fare*…o da ascoltare           *Bernard Lubat

Di questo quartetto non sapevo niente. Sono tornato al Cotton Lab sulla fiducia, guai starne troppo lontani, neanche “per giustificati motivi”. Pena regredire musicalmente. Così anche stavolta ho avuto  la fortuna di conoscere ciò che del jazz ignoro.  “Il Jazz è una somma di cose sconosciute, ed è mio compito andarle a scoprire”, dice in un’intervista il polistrumentista Bernard Lubat detto L’improvvisatore (Musica Jazz 1-2017). Addirittura lapidario un suo più recente intervento (Musica Jazz n°830, 1-2020, letto mentre imperversa Sanremo…): “Il Jazz è quel che resta da fare”. Come dire… l’ultima spiaggia.

Sicchè questi quattro – un po’ francesi, un po’ neozelandesi, un po’ israeliani, un po’ anzi molto americani – ci hanno portato il più avanzato, sperimentale e professionale Jazz di New York. Come nel loro NO FILTER realizzato senza filtri né effetti in una sola mattina, “live in sala d’incisione ma ben curato” dice Emiliano D’Auria: composizioni immaginifiche, “improvvisazioni istantanee”, che non solo materializzano compiutamente il pensiero dell’anziano collega Bernard Lubat (loro sono circa quarantenni), ma ci indicano le sconfinate autostrade che il Jazz ha tuttora davanti. Oggi siamo solo all’inizio.

Noi, lì ad ascoltare, ci siamo sentiti piccoli e confusi, (in)consapevoli di quanto siamo indietro… Solo i duetti all’unisono sax-chitarra potremmo dirli (appena un po’) prevedibili: di architettura elegante e minimalista, improvvisi ma attesi, mai spettacolari. Brani mediamente irruenti ma con un’energia nascosta, o riflessivi e carezzevoli (n°3 e n°6), perfino con armonie e motivi non evaporabili, nel jazz! Costruzioni sonore discontinue orecchiabili ma pure sghembe, di note distratte apparentemente casuali (n°7): che potresti inventartele tu fischiettando mentre passeggi col cane o corri la maratona di NY.

Contrabbasso e batteria ricamano altro, vallo a chiamare accompagnamento, o ritmo: trovano angoli segreti, e ti ci portano. Tutto jazz nuovo e sveglio, ipnotico e rilassante, di cui non sai né aspetti la fine: ogni pezzo son quasi costretti a troncarlo “all’antica” (ZAC, o sfumando), ma nella tua testa quella musica continua. Come coi “silenzi” prima e dopo le esecuzioni di brani di musica classica, che tanti non capiscono né rispettano affannandosi goffi ad applaudire, e invece preziosi e indispensabili quanto la musica suonata e pure di più, non si dice che la ECM li “incida” apposta, questi silenzi, nei suoi dischi?

Notevole ma leggero il “peso specifico” (copyright Emiliano D.) della serata, col numeroso pubblico che ha contribuito alla corale “opera unica” che si crea in questo auditorium-laboratorio di musica da sentire guardare e vivere, unico da queste parti.

Resta da capire – è ciò che si chiede Lubat nella sua intervista di qualche anno fa – “come mai troppa musica si sia lasciata corrompere dal mercato. Oggi siamo perduti: pensiamo che la musica sia quella che ci propongono la TV e le radio commerciali o i supermercati… Una situazione tragica… La musica è stata completamente deviata dalla sua funzione”.

Ma chissà, forse il jazz si salva. Non resta che farlo, o come minimo ascoltarlo. Possibilmente dal vivo, in spazi ad hoc, in club come questo, dove sia possibile il contatto diretto tra musicista e spettatore: il jazz è quel che resta da fare.

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