“Miseria e nobiltà”, risate amare con Lello Arena al Ventidio Basso di Ascoli

foto Alceo Lucidi per Il Graffio.online

di ALCEO LUCIDI –

ASCOLI PICENO – Risate amare per l’adattamento della commedia “Miseria e nobiltà”, andato in scena sabato 8 febbraio con replica domenica 9 febbraio al Teatro Ventidio Basso di Ascoli, in una due giorni che ha regalato al pubblico presente grandi emozioni. Un tuffo nella storia con chiari riferimenti alla realtà dato che il testo di Eduardo Scarpetta, grande attore e drammaturgo napoletano, un classico del teatro italiano, è stato scritto nel 1887, ma non ma ha mai smesso di parlare al pubblico di oggi. Anzi, secondo il grande mattatore della serata, quel Lello Arena a cui il personaggio di Felice Sciosciammocca calza perfettamente, i due mondi si reggono l’uno sull’altro ed è, invero, “la nobiltà a poggiarsi sulla povertà” perché senza poveri non sarebbero possibili, spesso, i soprusi e lo sfruttamento dei ricchi.

Questa commedia dura, senza compiacimenti e artifici, glabra come gli ossi di seppia montaliani, dove i meccanismi scenici sono scoperti e tesi come corde di violino, dove si rincorrono amarezza e ilarità, la comicità arguta e tonda del teatro delle maschere, sganciato dalle psicologie e il fondo tragico della vita, trova nuova linfa nella regia di Luciano Melchionna che ha fissato ormai da anni, dopo “Parenti serpenti”, una interessante collaborazione con Arena. I personaggi nella sua regia trovarono una loro umanità, un condensato di emozioni, dettate – è proprio il caso di dirlo – dalla pancia.  Certo non era facile eguagliare un classico, portato in scena centinaia di volte e che i più consumati avventori di teatri partenopei conoscono perfettamente – per dire il napoletano medio -, già adattato da Edoardo De Filippo e trasposto in un film del 1954 di Mario Mattioli con l’impareggiabile Totò.

A dare sostanza e qualità a questo spettacolo, però, hanno giocato due fattori. Per primo, l’adattabilità e il grande senso della recitazione degli attori e una felice scenografia che, come nelle commedie di Ionesco o Beckett, tengono in scacco le figure sceniche. Che sia l’antro buio e umidiccio dello scantinato dove vivono Felice (professore in pensione caduto in disgrazia) e la sua ossessiva compagna (un’ottima Maria Bolignano che ci è parsa perfetta nel ruolo di Luisella), assieme alla famiglia del suo amico Pasquale, un attore squattrinato (Andrea de Goyzeuta che ha personalità e spessore scenico da vendere) o la dimora elegante del signorino Eugenio, invaghito della figlia del cuoco in forza presso il ricco Marchese Gaetano Semmolone, i personaggi sono sempre bloccati nelle loro caricature e stereotipi.

Non evolvono ma in questa farsa, così poco surreale, divertono rimandando più chiaramente in questa particolarissima messinscena, ad alcuni temi che il testo originario della commedia cova da sempre: la paura del diverso (l’immigrato di oggi), l’analfabetismo di ritorno, l’insopprimibile rampatismo, quel connaturato difetto d’orgoglio che è insito forse in ogni cuore umano. Emblematica è la chiusa dell’opera, prodotta dall’Ente Teatro Cronaca Vesuviano, in cui lo stesso Felice conclude: “Non miseria e nobiltà, ma miseria e miseria…Sì, misera…nobile e umana”.

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