Eugenio De Signoribus, il nostro “Robinson”

di PGC –

La Repubblica/Robinson n°145 (14.9.2019): «Eugenio De Signoribus, così coltivo il frutto poetico» –

Chissà quanti siamo, a precipitarci in edicola per comprare Robinson appena arriva; ad andare poi subito alle ultime due pagine dove Antonio Gnoli intervista il “personaggio della settimana” (col relativo ritratto a fianco, disegnato da Riccardo Mannelli). Chissà quanti siamo, è una cosa irresistibile. E, sorpresa, l’intervistato di ieri è Eugenio De Signoribus!

Intanto mi stupisco perché i personaggi di cultura che Gnoli intervista nascono in genere negli anni ’30, e in confronto Eugenio è poco più che un ragazzo. Mi sorprende poi la coincidenza con l’idea volante o peregrina venutami alcuni mesi fa nel leggere l’intervista al “nostro” Tullio Pericoli-illustratore di colline e di paesaggi mentali e fisici: l’idea di trovare – su un Robinson – un’altrettanto bella intervista al “nostro” Eugenio De Signoribus-poeta. Ma è presto, mi dicevo, figurati poi se succederà…

Invece guarda, l’intervista è adesso, e proprio nella casa di campagna di Tullio Pericoli (che non vede da tempo), che è dalle parti di Cupra Marittima – L’isola che c’è – dove da sempre vive Eugenio!

“Ci sono poeti che si riconoscono da come camminano. Hanno il passo evanescente delle occasioni mancate, vestono con la stoffa del loro dolore, parlano come se ogni cosa dovesse aver termine, da un momento all’altro. Eugenio De Signoribus, il poeta più schivo che conosca, sembra sempre sul punto di dissolversi…”

Antonio Gnoli sa inquadrarlo subito con affettuosi e veritieri tratti da pittore, De Signoribus non è un poeta qualsiasi, è uno “specialista di precarietà”. Ma anche un artigiano, come suo padre: che faceva il barbiere ed “era molto preciso nel suo lavoro: per ottenere una buona sfumatura, diceva che occorreva lavorare con la punta delle forbici. E questo richiedeva tempo. Ed era così, sia per la testa del ricco che per quella del povero”. (…). La poesia esige lo stesso scrupolo, la stessa precisione: “la cura massima della parola, la scelta del tempo giusto, la lotta alle sciatterie di quelli che nello spazio di un mattino si scoprono poeti, musicisti, pittori”.

Perché “il frutto poetico va coltivato” con fatica e silenzio, come farebbe un giardiniere coscienzioso. (avrebbe fatto il giardiniere, dice Eugenio, se avesse potuto): è un percorso arduo, dall’esito incerto, né alcuna legge esiste “che obblighi ad accettare un poeta o un verso”. Nel dialogo ampio e sincero che disegna le infinite, intime sfaccettature del poeta, emergono ricordi di poeti conosciuti, amati, e la certezza della sacralità della poesia, della sua forza e della sua solitudine.

“La verità della poesia non è il frutto di un esperimento che si può ripetere. La verità della poesia è sola. Cresce nel deserto ed è raro che possa essere ascoltata. É la parola estrema e indifesa che cancella ogni certezza. É la semina di un raccolto difficile”. Si chiude su parole come queste, che non lasciano scampo, il dialogo discreto e profondo col poeta e con l’uomo; e ancora una volta la speciale scrittura di Gnoli-giornalista mostra di saper estrarre tutto l’oro che c’è da un incontro, da un racconto, da una conversazione apparentemente casuale. Chissà quanti siamo, a raccogliere le sue interviste…

Di certo anche a noi tapini, che da queste parti respiriamo la stessa aria di De Signoribus, che percorriamo (con meno rispetto, noi) le stesse strade di paese dalle Case perdute, che leggiamo talvolta troppo distratti i suoi versi, pare oggi di conoscerlo meglio. Ci aiuta anche l’acuto ritratto di Riccardo Mannelli: con poche rughe, per una volta…

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