“Memorie di trincea” con Lirim Gela. Restare umani

di SARA DI GIUSEPPE –

Autoctophonia Festival, Grottammare, Paese Alto.“Teatro Ospitale”- Casa delle Associazioni. “Il fabulatore incantevole” a cura di TeatrLaboratorium Aikot27 e Gruppo Aoidos.”Memorie di trincea” di e con Lirim Gela.Riscrittura scenica da “La provocazione” di Ismail Kadare –

GROTTAMMARE –  È affidato al promettente Lirim Gela il penultimo incontro di Autoctophonia Festival. La sua riscrittura scenica de “La provocazione” di Ismail Kadare è provocazione essa stessa: è ri-creare il testo piuttosto che re-citarlo, divenirne “autore” oltre che soggetto-attore. Ne emergono echi mai spenti di guerre balcaniche, di terre che il giovane Lirim ha lasciato bambino, teatri di conflitti antichi e recenti: e le trincee delle pagine di Ismail Kadare sono le stesse narrategli da coloro che là sono rimasti, guardate attraverso gli occhi di chi c’era.

Sono uguali ovunque, le trincee. Di Bonaventura ne conversa, in apertura, col suo pubblico: parla di quelle vissute dal padre, incapace di dimenticarne la ferocia; di quelle del nonno disperso in Macedonia, di lui solo qualche foto è rimasta; di quelle ricreate da Francesco Rosi in “Uomini contro” con quel comandante Ottolenghi, “Basta con questa guerra di morti di fame contro morti di fame”, e il regista denunciato per “vilipendio dell’esercito” nella cupa italietta degli anni ‘70. Sono le trincee di ogni guerra nel “secolo della carneficina industrializzata”, nel Novecento dei nazionalismi e dei monumenti eretti alla manipolazione patriottica, dei poveracci mandati al macello per la gloria delle aristocrazie militari.

In Ismail Kadare, scrittore albanese emigrato in Francia – dove pronunciano Kadaré (fenomeni, questi francesi), insignito di prestigiosi riconoscimenti, più volte candidato al Nobel per la Letteratura – e nella prosa asciutta del suo La provocazione (1962) leggiamo una storia senza tempo, che parla tuttavia ai contemporanei. Due trincee, due eserciti che si fronteggiano e si provocano reciprocamente, un inverno bianco e ghiacciato, il piccolo caporale Kostouri suo malgrado a capo della divisione dopo la morte del “compagno comandante”.

“La neve abbagliava lo sguardo”, dalla trincea di fronte il vociare del nemico che festeggia il Natale; le ragazze arrivate col camion “non sempre erano prostitute”, a volte erano studentesse iscritte alle associazioni patriottiche dell’esercito nazionale. Affiora il ricordo di lei, della sua ragazza che ora s’è fidanzata, gliel’hanno scritto, ecco la lettera rigirata tra le mani, coi francobolli incollati storti.

E, improvvisa, la provocazione anche se è Natale: i colpi di pistola, il boato di una bomba, la mitragliatrice, e subito la risposta, le grida, il crepitio delle armi, l’inferno… [ Sparagli Piero sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora… il suono di djembè percuote il buio, rimbalza sugli assi di legno del palco…  ].

La morte “stava lì nell’edifico della postazione”, intorno solo il silenzio e l’ufficiale di collegamento che nella cornetta nera gracchia “pronto, pronto”; al mattino l’improvvisata sepoltura del comandante ucciso è già coperta dalla neve, candida e luminosa sopra quella terra nera. E di colpo una bandiera bianca dalla trincea opposta, una ragazza ferita, “sappiamo che da voi c’è un medico” dice in albanese, la convenzione di Ginevra eccetera. Una decisione drammatica da prendere in fretta – una donna, una straniera – il dubbio, l’incertezza, poi la coscienza che impone di soccorrere, di restare umani.

Diciannove anni, si saprà poi  – “piangeva in modo silenzioso, con la testa sotto la coperta” – e dopo, quando sarà morta – “si spense prima dell’alba” – eccola coi capelli biondi e il corpo minuto adagiata sulla barella in territorio neutrale, verranno a riprendersi il corpo dall’altra trincea. E i giorni sono ancora vuoto e attesa nella neve, giorni di nulla, uno strano silenzio intorno, solo il lamento della neve sotto gli stivali, e pochi metri più in là il confine tra due stati, sotto il fango nero i “loro” morti, sepolti secondo la loro usanza, la testa verso la propria terra, le gambe verso l’altro stato.

Ma finalmente non nevica più, domani o dopodomani la strada si aprirà, dei punti neri già avanzano in lontananza, presto la spedizione li raggiungerà; e tutto questo avrà fine, riceveranno le lettere a lungo attese… sembra di non sentire più nemmeno il gelo che ferisce la faccia. “Allarme!” è il grido improvviso della vedetta e squarcia il silenzio. “Di nuovo un provocazione? Com’è possibile?”…  Dodici ore dopo la strada è aperta, la spedizione – i punti neri all’orizzonte – è avanzata velocemente, ha lottato con la neve e le valanghe ma la postazione è raggiunta, i soldati avranno le loro lettere…

Silenzio, troppo silenzio, e presentimenti, è strano non sentire nessuno, da lontano la sentinella appare seduta, appoggiata alle travi, come se fosse troppo stanca, come se…
“Da ambo i lati del corridoio il vento soffiava forte sopra i morti”.  Guardava il cielo, il caporale Kostouri, con una grande ferita di baionetta nel petto, gli altri giacevano qua e là…Li misero in fila nel retro del camion, sopra i corpi la borsa piena di lettere e cartoline.

Il lungo applauso che saluta Lirim ci riscuote da quest’ora di immedesimazione totale. Nella fulminante riscrittura scenica scopriamo il pathos di un’opera che tocca corde universali; che addita la tragedia e la follia di ogni guerra ma ci interroga con forza anche sull’oggi, sul precario confine tra umano e disumano: incerto e confuso, disperso nella nebbia degli slogan e delle propagande, nelle mistificazioni dei poteri che chiamano sicurezza il non soccorrere, il volgersi dall’altra parte, la rinuncia a restare umani.

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