“Poetar Rivoluzionando” con Di Bonaventura. Per una pallottola in più

di PGC –

Autoctophonia Festival, Grottammare, Paese Alto.“Teatro Ospitale”- Casa delle Associazioni. “Il fabulatore incantevole” a cura di TeatrLaboratorium Aikot27 e Gruppo Aoidos. “Poetar Rivoluzionando – Memorie di Ottobre”. Riscrittura scenica di e con Vincenzo Di Bonaventura –

GROTTAMMARE – Un tempo d’ottobre, più si facevano le rivoluzioni, più nascevano i poeti. Illuminavano come fiaccole il tempo della rivoluzione. Ma finita quella, o subito o dopo un po’, alcuni toglievano il disturbo. Si sparavano. Se la pistola s’inceppava non si perdevano d’animo, ci riprovavano, che sarà mai una pallottola in più… Finchè BANG, gli andava bene. Esénin invece si uccise “diversamente”: chi dice tagliandosi le vene, gli serviva il sangue per scrivere l’ultima poesia…  Turbinosi tempi di Futurismo. Voglia di cambiamento, costi quel che costi. Il pensiero oltre l’azione. “… le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa… il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche…”

Parevano essersi messi d’accordo, quei tre grandi poeti russi, e furono come un’onda anomala in un mare di vecchiume. Furono la rivoluzione essi stessi. Majakovskij “sognò la rivoluzione prima che questa accadesse”: “Aderire o non aderire? La questione non si pone per me (e per gli altri futuristi moscoviti). E’ la mia rivoluzione”. Blok, il simbolista che “vedeva nel cielo geroglifici”, dalla prodigiosa forza lirica, pervaso come pochi di alone mistico, alla fallimentare rivoluzione del 1905 si accascia: diventa realista. A quella di ottobre del ’17, prima si esalta, poi ne è travolto. Perde quasi la speranza; salvo – ne “I Dodici” – diventar visionario: le 12 guardie rosse che pattugliano Pietroburgo sarebbero i 12 Apostoli, e arriverà pure un Cristo… Esenin bello come il sole, il poeta-contadino (allora era il massimo), il romantico, credeva nella rivoluzione fino a un certo punto, ma la usò. Non era un rivoluzionario. Le sue poesie incantavano, anche per lo scalpore, sicchè in patria divenne subito celebre: oggi sarebbe un influencer da 1 milione di follower.  Fu un prodigioso effetto della rivoluzione, e la sua fine poi così teatrale…

Eccolo, il “poetar rivoluzionando” del primo ‘900, immerso nella pittura, nella musica, nell’architettura, in ogni disciplina artistica. Oltre che – rischiosamente – nella politica. I poeti erano “interconnessi”, si direbbe oggi. Erano come “lampioni ficcati nel mezzo della strada”, la illuminavano esponendosi, se non combattendo. Proprio non poteva essere la solita poesia. Era nato un nuovo “metodo artistico”, più sperimentale e realistico, più visivo, più acustico nella fattura dei versi, più penetrante intimistico e scenografico nella tenerezza. Più palpitante. Meno simbolista. Nasceva la modernità ad alta tensione, veloce, metaforica. La parola veniva scomposta come un quadro cubo-futurista, e la poesia concepita come arte teatrale irripetibile di vita pulsante.

Ed ecco oggi il “poetar rivoluzionando” militante di Di Bonaventura-attore-solista. Prima, nell’inospitale Ospitale con le sue mani s’è costruito (per il Festival) il giusto non-palcoscenico, come un’installazione non finita, nata per sottrazione di retorica perbenista e per addizione di materiali poveri, grezzi, e materie-seconde ricche di espressività futurista. Volumi monumentali ma dinamici, poggiati su un parquet primitivo, come su un’isola. Manca solo una centenaria bicicletta della Rivoluzione… Poi, nello spettacolo, come quinte, solo partiture di luce calda e incerte sciabolate – schlàac – di autentiche rare foto d’antan. Mentre la musica-matematica dello djembè accompagna la lingua “trasformazionale” di Vincenzo.

Tre poeti di questa levatura in audace “riscrittura scenica” unica non ripetibile. Chi c’è, c’è. Poco più tardi, alle 21,15, sarà ancora uguale ma diverso. Chi c’è, c’è. Comunque, Carmelo Bene e Dario Fo sono tra noi.

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