La magistratura oggi: il pubblico encomio a Borrelli e la dea Dike rovesciata dal trono

di GIUSEPPE FEDELI* –

Se l’idea di Giustizia avesse un volto, avrebbe il suo. Se il precetto costituzionale “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” avesse un nome, avrebbe il suo. Francesco Saverio Borrelli è stato il più grande magistrato che abbia avuto in dono l’Italia, almeno fra quelli che hanno goduto del privilegio di morire nel loro letto. Diceva Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Ma nessun popolo può fare a meno dei simboli e degli esempi, e lui era entrambe le cose. È il ritratto che di lui fa Marco Travaglio, di quello che il giornalista-opinionista definisce per traslato lo stile per antonomasia. Napoletano, classe 1930, figlio e nipote di magistrati, in toga dal 1955, Borrelli di stile ne aveva da vendere. Suo è il celebre appello a “resistere, resistere, resistere” allo “sgretolamento della volontà generale e al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto”.

Nel Paese di Palamara e degli scandali a orologeria, delle bombe ad alto innesco- vere o metaforiche che siano – e dei parlamentini costruiti ad personam, per favorire le carriere private di magistrati di belle speranze e di specchiate virtù (sic!…), certe stature non fanno parte – di diritto – della casta. Appunto, la magistratura: che cosa è rimasto della dea Dike? Di questo corpo così corrotto e lacerato nell’intimo, di cui si calpestano le squame come la muta di serpi alla stagione novella? “La legge è uguale per tutti” è un proclama che da tempo sa di presa in giro. Dov’è la giustizia? Che cos’è la giustizia? Che ne è stato dei tre capisaldi su cui questa impalcatura, ormai scricchiolante, sin dalla elaborazione del diritto romano si regge? Apprendiamo dai media, ma possiamo  toccarlo con mano, oggi è tutto un inciucio per il tornaconto personale, la carriera, il podio. In barba ai diritti del civis, sia come singolo, che come consociato: perché la legge non è uguale per tutti, diciamolo senza veli né tentazioni ipocrite. Punto e basta.

Ci sono, tuttavia, eroi – Falcone e Borsellino valgano da esempio per tutti – che, nel silenzio, hanno cercato e cercano anche a prezzo della loro vita di debellare il virus della delinquenza istituzionalizzata, di “curare” la tabe della corruttela, dell’omicidio elevato a valore: omicidio morale o omicidio fisico non fa differenza. La magistratura deve essere l’araldo della difesa dei diritti, non deve pensare a sé, non deve essere autoreferenziale.  Deve tenere bene a mente la lezione di Montesquieu. Non può far finta di dimenticare che è l’avamposto a tutela ognuno di noi. Per fortuna c’è ancora qualcuno che ostinatamente – perché ci crede – porta avanti giorno dopo giorno la sua onorevole battaglia: che ne dite del magistrato Lupacchini, splendido outsider, costantemente in prima linea, sui fronti più caldi dello Stivale, a dispetto di tutto e di tutti? Una fronda che grida, sia pure con voce clamantis in deserto, contro il sopruso, l’egolatria, l’autocelebrazione fine a sé.

Riconoscere loro il grande merito di andare controcorrente non è doveroso, è sacrosanto. Anche se il signor Nessuno – nell’occhio corto dei minus habens, proni a mammona e ai totem di una società malata – non diventerà Presidente della Repubblica. Non fosse mai: ma almeno accorgiamoci che esiste, o che è stato, senza eco di grancasse o esecrabili brame.

*Avvocato, Giudice Onorario di Pace di Fermo

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