“L’infinito” di Leopardi compie 200 anni, ma è sempre giovane

di GIUSEPPE FEDELI – 

Attraverso la riflessione sgomenta su spazio e tempo, su passato e presente, e sul loro infinito dilatarsi, “ove per poco il cor non si spaura”, il poeta “tenta”, immemore, di abitare il non luogo, l’essente-assente.  Pur essendo nel mondo, la lirica, richiamando elementi paesaggistici cari al poeta (un colle, la siepe, “che da tanta parte/dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”), in un crescendo di tensione valica, tuttavia, i limiti dello spazio e del tempo: fino ad annegare, liberante, nel biancore accecante del tutto-nulla. Verso dopo verso, con le  sconfinate riflessioni sull’intreccio-comparazione tra passato e presente, il tessuto reale-simbolico del componimento si lascia pervadere da una accorata, inguaribile malinconia: fino all’abbandono nella immensità. Sono state offerte plurime e variegate letture del canto, che segna il vertice della produzione poetica leopardiana.

Ad avviso di chi scrive, la tematica de “L’Infinito”, anche ermeneuticamente parlando, non è definibile: nel senso che contiene spunti, suggerimenti, pause di meditazione, profondità di pensiero, tali per cui la lirica si colloca in una “dimensione”, che il poeta percepisce attraverso i suoi sensi (non dimentichiamo che egli sposava la corrente filosofica del sensismo, non disgiunta dal confessato amore per Arthur Schopenhauer): mentre il lettore-fruitore può cogliervi significati “altri”, modulati su una diversa sensibilità e “auscultazione” del mondo. Ma, alla fine, per l’uno come per l’altro, si spalancherà l’imperscrutabile abisso, utopico e ucronico.

Quel mare che si distende dopo il verso “E mi sovvien l’eterno”, che succede al confronto di momenti del tempo. Momenti che dal pensiero, ritornato a sé stesso, si recuperano trascorrendo da un tempo senza tempo, l’eterno, aeviternum, alle morti stagioni: fino a reimmergersi nel presente. Posto al cospetto dell’infinito, Giacomo Leopardi prova un senso di grave smarrimento, poiché il suo “essere” brancola in un “dove” inabitabile, indicibile e indecidibile, ai confini tra effimero- immanente da una parte,  eterno-trascendente dall’altra. Sicché il naufragare nel “mare” è la catarsi, che segue lo “spaurirsi” dell’anima (del cor) di fronte all’ immensurabile: che, come tale, da varca la capacità di “de-finizione”.

L’infinito
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

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