La vigilia di Natale e l’obbligatorio “rito” del cenone

di GIUSEPPE FEDELI* –

La vigilia di Natale significa – nella semantica laicista – riunione dei membri della famiglia (leggi: “randevu” di animali in via di estinzione, molti dei quali si rivedono esattamente a distanza di un anno!) per poter celebrare la più pagana delle feste: tra sorrisi benedicenti e virate (non solo di capo) velenose. Mi spiego: il cenone della veglia è un rito a cui non si può venir meno, che va obbligatoriamente officiato, perché – è noto?- a Natale si è tutti buoni e ci si vuole più bene e blablabla… Non vorrei essere ripetitivo né petulante: ma poi ti accorgi che Tizio scocca una occhiataccia a Caio, il quale non sopporta la vicinanza di Sempronio. Quest’ultimo a sua volta ucciderebbe letteralmente la cognata: se non che i di lei figli gli sono simpatici -meglio, gli sono utili – perché giocano con i propri, e così gli tolgono il peso.

Passiamo alla regina spodestata della casa (che però fa sempre comodo, soprattutto a chi è uso fare toccata e fuga). La suocera ingombra, riempie di sé ogni spazio, ma cucina – e di che tinta! – Quindi bisogna andare dalla suocera perché cucina bene salvo poi, una volta usciti da questa rappresentazione surreale, dirgliene di peste e corna. Sulla tavola imbandita, l’albero luccicante che troneggia al centro della stanza, ammiccano i manicaretti: ce ne sono tanti, fino a star male. Fiato alle trombe, e si dà inizio alla “orgia culinaria”: tra un boccone e l’altro si parla di vuoto, di insulsaggini. Discorsi di maniera e di convenienza. Convenzioni sociali cui non è dato rinunciare: anche il conformismo perbenista è uno stile.  E non appena le chiacchiere toccano punte proibite si crea un silenzio assordante, imbarazzante che, come si dice, si taglia a fette: allora è bene deviare su altre questioni patetico-melodrammatiche, con contorno di risate vacue e sguaiate, a (s)mascherare non tanto la “gaffe”, quanto la incongruità di questo ensemble: raffazzonato, raccogliticcio, senza “ragione”. Così è nel 99% dei casi.

Ma in certi focolari domestici si salva miracolosamente quella fetta di mondo dove il sentimento, l’amore, la fedeltà e la complicità hanno da sempre costituito il collante di una compagine sana: all’interno di quei muri un poco anneriti che suggeriscono pensieri illesi si dipana la saga di una famiglia allargata, perpetuata nel tempo: di padre in figlio. Davanti al caminetto, o vicino a una pentola che bolle e riempie dei suoi profumi tutto l’ambiente ecco si respira la Sapientia, quella cultura sapienziale che stratificata nel tempo ha fatto una civiltà: che scalda gli animi e fa sentire vero il Natale.

Ritornando alla massa damnationis, dopo la grande abbuffata tutti – o quasi, se le dissennate libagioni non li hanno rimbambiti prima della mezzanotte – in chiesa ad adorare (adulare?) un finto bambinello, con ancora appiccicata negli abiti la puzza di fritto che dà la nausea (nonché la misura della vuota inutilità degli eccessi). Pare di percepire con altre orecchie: non fa niente abbiamo mangiato, abbiamo bevuto, siamo satolli, ci basta così. Dentro la casa del Signore ci si va, ovviamente, sempre per “tradizione”. D’altronde un sorriso non costa nulla, anche se plasticato, soprattutto se trucemente autentico.

*Giuseppe Fedeli, Avvocato, Giudice di Pace di Fermo

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