Lo smarrimento della politica come luogo di dibattito. Il grido solitario di Marzonetti

Palazzo Montecitorio

di ALCEO LUCIDI –

RUBRICA “DRITTO E ROVESCIO”

Alceo Lucidi

La recente fuoriuscita dal gruppo consigliare del Partito Democratico di San Benedetto del Tronto da parte di Pasqualino Marzonetti mi offre lo spunto per una considerazione sulla crisi del maggiore partito di centro-sinistra e della politica più in generale. Stiamo assistendo, ormai da anni, a dispute controproducenti e sterili discussioni, spesso e volentieri a dei veri e propri muro contro muro, tra rappresentanti delle istituzioni, che non fanno bene di certo alla vita politica dell’Italia, intesa come dialettica, scambio di opinioni, anche serrato e duro, ma nel rispetto di un decoro istituzionale. I politici non dovrebbero mai dimenticare – sembra scontato ma non lo è di fatto – di essere i mandatari del corpo elettorale, dei soggetti deputati ad interpretarne e declinarne le istanze, in ogni assise, dalla più grande alla più piccola, dei dirigenti pubblici pro termine che sarebbero tenuti, con pragmatismo e rinnovato coraggio, a rivestire il ruolo loro assegnato nella vita sociale e civile del Paese dalla Costituzione. Capirlo, darsi un codice etico (per poi però rispettarlo!), come il PD, e non solo, a suo tempo fece (sono passati ormai 11 anni dalla sua nascita), sarebbe già un significativo passo avanti. Non coprirsi dietro promesse inutili; non essere solo centrali di voti ma sismografi dei territori di appartenenza e servitori delle istituzioni, anche quello contribuirebbe a rendere la politica il luogo dell’incontro, della piazza accogliente, della casa trasparente, dove pubblico e privato, uomini pubblici ed istituzioni possano incontrarsi senza dietrologie, tatticismi, senza il timore della demagogia (che uccide la politica).

Ecco perché mi colpisce il grido solitario, fuori dal coro, del transfuga Marzonetti, capace di guardare anche al diverso, all’opposto del suo recinto politico, da una specola diversa rispetto agli schematismi ideologici o gli ordini di scuderia. Le opinioni di Marzonetti si posso accogliere o meno, eppure il dirigente sanbenedettese pone una questione di metodo: se si debba ancora essere schiavi delle vecchie logiche di potere oppure aprirsi al cambiamento, pur difficile, duro, complesso. Se i partiti debbano tornare ad essere organi di rappresentanza intermedi riformati nella mentalità, strutture organizzative, statuti, nel linguaggio e nelle azioni intraprese soprattutto (quanto mancano le grandi politiche nazionali sull’edilizia, la vera lotta al debito pubblico, la pianificazione urbanistica ed infrastrutturale, le lotte agli sprechi e all’evasione o elusione fiscale, un nuovo modello di accoglienza ed integrazione degli immigrati stile Riace), oppure languire in un limbo di paralizzante mediocrità.

Marzonetti è lo specchio delle tante delusioni o illusioni della politica. Nel suo partito (in calo esponenziale, dopo le elezioni nazionali del 4 marzo, al 19% con una perdita di 2 milioni e 600 mila voti) non si è ancora celebrato un congresso degno di nota; soprattutto nessuno ha proposto una dolorosa, eppure necessaria, autoriflessione (come sempre si era fatto in passato nei rassemblements di sinistra, senza peraltro cambiare sensibilmente impostazione) sugli errori commessi, abbozzando una linea politica condivisa e progetti futuri. A cosa serve un segretario-reggente – seppur bravo, volenteroso, attento come Maurizio Martina – se non si sono fatti ancora i conti in casa e, come diceva Manzoni, «puliti i panni nell’Arno». Il protagonismo a tutti i costi, la rincorsa ai voti della destra, assieme alla personalizzazione dello scontro politico, abbiamo visto cosa hanno prodotto, nonostante qualche buona legge messa in piedi a colpi di fiducia (peraltro!). Il PD – vuole dirci Marzonetti, ma non solo lui, penso anche ad un altro attivista locale come Antonino Armata – deve ritrovare la sua identità smarrita, lo spirito degli inizi, quel progetto liberale, riformista, social-democratico che ha perduto di vista attraverso un nuovo patto con il proprio elettorato di riferimento e con l’Italia più generale. Senza pensare troppo ai voti e alle poltrone ma al profumo della bontà dell’impegno politico.

Nella seguitissima assemblea del PD, tenutasi venerdì passato 12 ottobre al Circolo Pescatori d San Benedetto – commenta amareggiato Armata –, alla presenza del Presidente nazionale Matteo Orfini e del deputato Francesco Verducci, «mancava un pezzo del PD», quello del Palazzo, e i politici hanno perso un’occasione per rendersi conto che vi è una democrazia così detta “dal basso”, della partecipazione, che intende (ri)emergere. Grazie «all’ostinazione di Pier Giorgio Giorgi» e come successo già in passato con Gherardo Colombo che «all’Università di Macerata e al Teatro Concordia (festa dei bambini)» ha risposto alle domande dei più piccoli «sui diritti e sulla Costituzione Italiana», allo stesso modo un’attenta platea ha rivolto interrogativi ai due parlamentari rovesciando il cannocchiale e parlando dei problemi di tutti i giorni e della sopravvivenza stessa di un partito-movimento, perché la classe dirigente possa metterci la faccia e sporcarsi le mani, cosa tutt’altro che facile, come diceva Don Italo Mancini. Non insisterò su questo grandissimo filosofo urbinate (di cui rimando alla biografia e alle opere), ma sul bisogno di ripartire, per la politica, dai circoli e dai congressi, insomma dai confronti con e per la gente, ritrovando la bussola del bene comune.

 

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