Serata in Palazzina con Sandra Petrignani in ricordo della “corsara” Ginzburg

di ALCEO LUCIDI –

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – «Sii coraggiosa (…) la mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri». Così scrive, poco prima di morire il primo marito di Natalia Ginzburg, Leone, trucidato dai nazisti nel braccio tedesco del carcere di “Regina Coeli” a Roma la notte tra il 4 e il 5 febbraio 1944. La moglie riprese alla lettera quelle parole; le scolpì in testa per diventare, subito dopo la guerra, una delle figure di punta di una gloriosa casa editrice, l’Einaudi, di cui fu l’unica donna dirigente, tra l’altro, in un mondo tipicamente al maschile (Giulio Einaudi, Pavese, Croce, Calvino, Balbo, Muscetta, Alicata). Non solo ma la Ginzburg divenne col tempo una scrittrice in grado di contenere interi universi esistenziali. Di Natalia Ginzburg, della sua vita apparentabile ad un romanzo – come ben la definisce Elvira Capone ad inizio serata – ci ha parlato in maniera appassionata Sandra Petrignani, presentando il suo ultimo libro, La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg (Neri-Pozza), sabato 14 luglio, all’interno degli Incontri della Palazzina organizzati dall’indomito Mimmo Minuto. Tra l’altro, quale migliore occasione se non quella del giorno che ricorda la data di nascita di Nat (come veniva carinamente chiamata in Einaudi) a 102 anni esatti dalla nascita?

Ritratto biografico, saggio – frutto di anni di ricerche – raccolta di memorie, documentatissimo affresco degli anni della Guerra Civile e dell’Antifascismo in Italia di cui la corsara fu una delle indiscusse protagoniste? Direi tutte queste cose assieme, dove già solo il lavoro di cucitura e finitura delle informazione, che definiscono la trama del volume, rendono la Petrignani una grande autrice. Lo stesso Minuto ricordava, nel corso della serata, come fosse difficile per una donna restare, per oltre 40 anni, sulla scena letteraria senza scomparire (fu sua gradita ospite già nel 1987). Evidentemente lo spessore professionale, ma anche le straordinarie esperienze ed incontri accumulati dalla Petrignani (la frequentazione della stessa Ginzburg ma anche l’amicizia con Elsa Morante, Lalla Romano, Cesare Garboli e, buon ultimo, Alberto Moravia), le hanno fortificato le spalle e resa un’interprete-studiosa-letterata dalle solide e perite basi.

Eppure – ricorda lei stessa ad inizio serata – il suo primo incontro con la Ginzburg, a metà degli anni Ottanta, fu più che mai carico di incognite e non privo di delusioni per un suo lavoro che le aveva sottoposto e che Nat non aveva compreso (per poi, divenuta deputata, scrivere alla Petrignani un affettuoso biglietto, proprio da Montecitorio, dove con parole incoraggianti, salutava positivamente uno scritto di poco successivo). D’altronde il personaggio dell’intellettuale Ginzburg era quello di una donna schiva ma forte, riservata eppure trasparente, schietta, capace di sotterrare l’interlocutore che aveva davanti con minacciosi silenzi, così come di aprirsi e donarsi con spirito di gratuità.

Dunque, un libro indispensabile che, in altri paesi, come per la Duras in Francia, sarebbe stato l’ultimo di numerose rivisitazioni postume (biografie, album di ricordi, edizioni critiche di epistolari) e che, invece, nella solita Italia distratta, è il primo approfondito resoconto sull’esistenza di una donna-letteratura, che non può essere raccontata a se stante, ma che chiede di venire (ri)compresa in un contesto storico allargato. Un’intellettuale in grado di spaziare dal racconto morale (alla maniera dei grandi classici francesi del Settecento), al saggio, all’articolo giornalistico, alla commedia (ne scrisse ben 11, tutte amare, spoglie, beckettiane).

Di affrontare ben due matrimoni: uno, lo abbiamo ricordato, con il patriota, letterato e fine traduttore Leone Ginzburg (capo redattore Einaudi, tra i primi studiosi di letteratura russa in Italia, studente modello al “D’Azelio” di Roma assieme a Norberto Bobbio, figura storica dell’antifascismo italiano con Carlo Levi, Massimo Mila, Sandro Pertini, Vittorio Foa, Adriano Olivetti, che sposerà la sorella di Natalia, la bella Paola). Animatore di “Giustizia e Libertà”, transfuga, inviato al confino di Pizzoli in Abruzzo, dove trascorrerà tre anni assieme alla moglie, in compagnia dei due figli (Carlo ed Andrea), venne fatto prigioniero e, minato nella salute, morirà da solo, nonostante la corsa disperata di Natalia a Roma per ritrovarlo. (La Ginzburg ne parlerà a più riprese nei suoi scritti soprattutto nelle novelle La stada che va in città, É stato così e nella struggente poesia Memoriale).

L’altro compagno è stato l’esuberante Gabriele Baldini: anglista e allievo del grande Mario Praz. Si conoscono in “via Sabatini al quartiere Trionfale, dove aveva sede Aretusa, “la prima rivista dell’Italia liberata”, diretta da Muscetta” e dove Baldini è “segretario di redazione”. Musicologo ed appassionato di storia del cinema, “estroverso, divertente, travolgente”, è l’esatto opposto di Natalia – con la stessa autrice che ne fornisce un divertente raffronto nelle Piccole virtù – e, anche se la Ginzburg non cambierà mai il nome acquisito dal primo matrimonio, per una sorta di compensazione, metterà sul campanello della casa romana, in Piazza Campo Marzio, “a due passi dal Pantheon”, lo stesso cognome dell’illustre secondo consorte.

La stessa devozione, lo stesso senso di rispetto, il medesimo sentimento di (quasi) filiale riconoscenza li abbiamo colti ieri nelle parole di Sandra Petrignani che ha voluto a tutti i costi questo libro, non solo per coprire una colpevole ed imperdonabile lacuna, ma anche per rispondere alla sonora bocciatura della prima ora da parte di una donna, innocente e sincera, dai modi severi eppure, come tutti gli ebrei, nutrita di una forte autoironia, che portava con sé il peso di alcuni segreti che non volle mai apertamente confessare. Anche nella vita, che si è completamente consegnata ad un scrittura semplice e dura allo stesso tempo, petrosa e anticonvenzionale, autobiografica ed aperta sul mondo – sia con Calvino che con Pavese condivideva il mito di Hemingway –, quel margine di dignità umana nella Ginzburg non è andato mai disperso.

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